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mercoledì 5 gennaio 2011

Il Faraone e la conversione dei minori

Parashat Bo 5771



E chiamo Moshè ed Aron, di notte, e disse: Alzatevi ed uscite di mezzo al mio popolo, anche voi, anche i figli dIsraele ed andate a servire il Signore come avete parlato’” (Esodo XII, 31)

Leggendo la nostra Parashà, che ci presenta il culmine delle dieci piaghe e la liberazione dall’Egitto, spesso dimentichiamo che la richiesta di Moshé, apparentemente, non è quella di liberare il popolo. Moshé ed Aron si presentano dal Faraone chiedendo tre giorni di culto nei quali il popolo potesse allontanarsi e presentare offerte al Signore senza timore di offendere gli egiziani.

Il Faraone, è noto, rifiuta. Tutte le piaghe, tutti gli eventi di queste parashot, pur contenendo la radice del concetto stesso di libertà e divenendo sorgente di ogni possibile discussione su di essa, vertono su tre giorni di festa.

Ibn Ezrà commenta il come avete parlato, del nostro verso, ad intendere i tre giorni. Ossia dopo la piaga dei primogeniti, il Faraone acconsente a dare al popolo tre giorni di riposo. Il Faraone, va detto, teme non a torto che i tre giorni siano un pretesto per fuggire. Nel panico della morte dei primogeniti egli rinuncia però alle due garanzie che aveva chiesto in passato: il sequestro dei beni (il bestiame) ed il divieto ai bambini di partecipare. Rashì rende infatti l’apparente ripetizione anche voi, anche i figli dIsraele ad includere i bambini.
Vorrei approfondire proprio la questione dei bambini.

La trattativa sulla partecipazione dei bambini avviene all’inizio della nostra Parashà. Moshé annuncia la piaga delle cavallette. La corte è stanca e comincia a fare pressioni sul Faraone perché acconsenta. Il Faraone passa allora dal rifiuto totale alla verifica delle condizioni.

E fu riportato e Moshè e Aron dal Faraone e disse loro: Andate e servite il Signore vostro D-o. Chi và? E disse Moshè:Con i nostri giovani e con i nostri anziani andremo, con i nostri figli e con le nostre figlie, con il nostro gregge e con le nostre mandrie andremo poiché è per noi Festa per il Signore.” ( Esodo X, 8-9)

Il Faraone non è d’accordo. “...guardate che il male è davanti alle vostre facce..” e propone vadano solo gli adulti maschi perché è questo che state chiedendo. Non è chiaro cosa intenda il Faraone. Rashì, prima di proporre un bellissimo Midrash che si allontana però dal senso immediato del Testo, afferma che il testo va inteso secondo la traduzione aramaica, il targum

Il Ramban dice che Rashì avrebbe fatto cosa gradita spiegarci a quale traduzione si riferisca perché sull’interpretazione di questo verso esistono diverse letture del targum. Il Ramban, e così anche molti altri Rishonim tra cui Ibn Ezrà, Chizkuni e Rabbenu Bechajè, sostengono che il Faraone starebbe dicendo: se insistete a chiedere che i bambini vengano con voi, le vostre cattive intenzioni sono ‘davanti alle vostre facce, sono rivelate.

Mi avete chiesto di fare tre giorni di offerte. Chi è che fa le offerte o che comunque partecipa al culto? Gli adulti. Gli uomini, e neanche tutti. Se mi chiedete di portare i bambini è chiaro che non avete alcuna intenzione di tornare e che è tutto un pretesto. Ibn Ezrà dice anche che in effetti Moshé è sempre rimasto vago su questo punto. I nostri Saggi hanno ampiamente discusso come mai la richiesta sia solo di tre giorni se il Signore intendeva liberarli del tutto, e non è questa l’occasione per dilungarci su ciò.

Rav Josef Dov Ber Soloveitchik, il Bet Hallevì, propone un interessante lettura della tesi del Faraone. Secondo il Bet Hallevì iltargum del nostro verso va inteso come: ‘vi andrà male’. Non vi conviene accettare il servizio del Signore. Il Faraone direbbe loro che se tutte le piaghe hanno colpito l’Egitto per il rifiuto ad adempiere ad un comandamento Divino, figuriamoci cosa sarebbe successo con un servizio a tempo pieno. Il Faraone affronta allora una questione teologica: questo culto non è sostenibile. “voi soffrirete alla fine perché non adempirete a tutti i suoi comandamenti, perché non cè uomo sulla Terra che non pecchi(Koelet VII,20)[Ed in un certo senso questo è anche quanto dice il Midrash citato da Rashì].

E qui il Faraone apre la polemica teologica ed halachica sulla questione della conversione dei bambini con tanto di citazioni dal Talmud. Il principio, stabilito nel trattato di Ketubot a pagina 11 a nome di Rav Hunnà, è che ‘si converte un minore per decisione del Tribunale perché è un beneficio per luiEd il principio generale è che è permesso beneficiare una persona senza il suo consenso ma non danneggiarla a sua insaputa. La Ghemarà in loco lega il criterio al caso in cui il genitore si stia anche convertendo, caso in cui chiaramente il bambino ha un beneficio nel seguire il genitore. Il punto è, dice Faraone, che è impossibile servire propriamente il Signore. È impossibile non essere puniti. Dunque abbracciare l’ebraismo è sempre un danno. Ora, si può scegliere per il bambino qualora ci siano probabilità di beneficio e probabilità di danno: i genitori e soprattutto il tribunale valutano le probabilità. Non si può scegliere per il bambino quando il danno è certo. In quest’ultimo caso l’adulto ha il diritto di auto-danneggiarsi, ma non ha il diritto di danneggiare un minore. Quindi, non potete portare i bambini.

È straordinario questo commento Bet Hallevì che dipinge quello stesso Faraone che per il Midrash si bagna nel sangue dei bambini ebrei sgozzati, divenire il paladino dei diritti dell’infanzia, sostenendo che non è giusto convertire i bambini. Da notare anche che è proprio di conversione che si parla perché gherim, stranieri ma anche convertiti, siamo stati in Egitto.
È paradossale, ma proprio il Faraone sarebbe il primo a costringerci ad una riflessione sulla liceità del ghiur ktanim. Si può convertire un minore, a discrezione del Tribunale Rabbinico, se è un beneficio. O almeno se ci sono buone probabilità che osserverà Torà e Mizvot. Se si ha la certezza che così non sarà, allora si sta danneggiando il bambino e non si ha il diritto di convertirlo. Se si ha la certezza del danno non si esce dall’Egitto. La polemica del Faraone, va sottolineato, è valida anche nei confronti dell’adulto, di tutto Israele. L’adulto però è capace di intendere e volere ed ha il diritto di farsi un danno. Il bambino no.

La risposta di Moshé al Faraone la possiamo trovare a mio modesto avviso in un bellissimo commento dello Sfat Emet al nostro verso fonte.

La fonte talmudica per eccellenza sul ruolo dei bambini nell’ebraismo, l’abbiamo visto più volte, è nel trattato di Chagghigà a pagina 3a. Si parla del precetto positivo dell’Hakel, la radunanza che va fatta una volta ogni sette anni nel Santuario nella quale il re d’Israele legge dal libro di Devarim al popolo. La Torà specifica che debbono esserci tutti: uomini, donne e bambini. Il Talmud obietta che è già difficile capire come mai le donne siano incluse nel precetto (si tratta di un precetto positivo legato al tempo dal quale in genere le donne sono esentate) ma certamente non si capisce come si possano comandare i bambini che sono esenti da tutte le mizvot. Il Talmud riporta a nome di Rabbì Elazar ben Azarià che i bambini vengono “per dare merito a chi li porta.
Lo Sfat Emet protesta che non si capisce bene che merito sia: se sono esenti non c’è mizvà e dunque non c’è merito. E risponde: “la sua spiegazione è che Israele ha la forza di fare unazione leshem Shamaim (con intenzione sacra) e questa diviene una mizvà e questo è il concetto di Torà Orale....e questo è quello che ha detto Moshè: Con i nostri giovani....poiché è per noi Festa per il Signore. E spiega lo Sfat Emet che questo è per noi va capito come il verso che dice asher tikreù otam, (otam (esse) che si scrive come attem (voi)) dal quale si capisce che le feste vanno stabilite dal Tribunale.

Prima ancora che il Faraone obietti Moshé ha abbracciato nella sua affermazione dell’inclusione dei bambini come degli anziani nel servizio Divino, il concetto di Torà Orale. La festa è per tutti noi perché è il nostro tribunale che la stabilisce sulla base della Torà Orale. Quella stessa Torà Orale che trasforma il buon proposito educativo dei genitori in mizvà.

ed ecco che i bambini sono inclusi nei loro padri, e per mezzo del fatto che il padre e la madre fanno con lui una mizvà il figlio si raffina e gli si aggiunge santità anche se non è cosciente, come il fatto che il Santo Benedetto Egli Sia associa un buon proposito allazione. Così la mancanza di azione da parte del figlio è dovuta ad un legittimo impedimento (ossia allessere minore) e la volontà di coloro che lo portano è come lazione e questo è il concetto del portare i bambini ed il concetto della Torà Orale dal punto di vista della saggezza di colui che sa prevedere cosa accadrà: in modo che il bambino sia abituato in santità e questa è laggiunta, lo spronamento e e la preparazione della mizvà... (Sfat Emet in loco)

Moshé sta spiegando al Faraone che non è affatto vero che l’ebraismo sia insostenibile. Che la Torà sia impossibile e necessariamente un danno. Non solo. La Torà non è un imposizione Divina né un sistema basato sulla punizione. È piuttosto un dialogo aperto tra l’uomo con i suoi limiti e D. nella Sua onnipotenza. La Torà Orale rappresenta la nostra partecipazione alla Creazione stessa. Attraverso la Torà Orale noi diveniamo soci del Signore. È un rapporto, un dialogo, che il Faraone nella sua tirannica monarchia assoluta non può neppure concepire. Il Faraone vede solo la piaga, la punizione, non riesce a vedere la dirompente sacralità che c’è nell’educazione di un bambino.

Lo Sfat Emet, sempre nella nostra Parashà spiega che la parte fondamentale della mizvà è che questa lascia una segno nell’anima umana. Per quanto la mizvà vada eseguita come comandamento Divino senza alcun ulteriore motivo, ciò nonostante è la preparazione alla mizvà, il desiderio della mizvà, che incidono profondamente sull’anima.

Lo stesso avviene con i bambini. È l’educazione alle mizvot prima ancora che questi siano tenuti alla loro osservanza che lascia quella traccia che permette poi, da adulti, di fare la mizvà in completezza.

All’ipocrita preoccupazione del Faraone della tutela dell’infanzia Moshé risponde dicendo che noi abbiamo la Torà Orale. Che noi siamo depositari della Torà. Che la Torà è la nostra stessa vita e che i bambini vanno educati. E che è proprio la Torà Orale, nelle mani del Tribunale, che stabilisce quand’è che c’è probabilità di beneficio e quando la certezza del danno. Non ci deve allora stupire se proprio l’educazione è il solo criterio che il Tribunale prende in considerazione per convertire un minore.

Ad un Faraone che vuole tenerci in Egitto dicendo che non è possibile convertire i minori noi diciamo che per quanto difficile è possibile se li si educa. Se si sta insieme. Se si è collettività. L’educazione del minore da convertire diviene prototipo dell’educazione dei minori in generale: vero spartiacque tra l’Egitto e la redenzione. Non è certo un caso che il Seder di Pesach ruoti proprio attorno ai bambini.

Si può prendere un bambino senza alcun obbligo e trasformarlo in un partner nella mizvà, ma ci vogliono un padre ed una madre che lo educhino in questo senso.

Per inciso secondo il Midrash citato da Rashì il Faraone prevede sangue nel deserto. Il sangue dello sterminio come punizione per il Vitello d’Oro. Il Signore lo trasforma in sangue della milà, che farà Jeoshua in Erez Israel. Di nuovo, a chi vede solo la punizione si risponde con una mizvà, la milà, che i genitori fanno su un bambino che non è in grado di scegliere da solo.

Tutto ciò non è un elemento accessorio all’ebraismo. È una conditio sine qua non del nostro essere ebrei.

Infatti, conclude lo Sfat Emet, il termine benè Israel, figli dIsraele racchiude l’idea di bonè Israel, coloro che costruiscono Israele.Il concetto stesso d’Israele noi lo costruiamo continuamente educando i bambini attraverso la Torà Orale. I figli, i bambini sono i mattoni (lebenim) dell’idea stessa di Israele.

Con buona pace del Faraone e soci.

La verga e il serpente

Parashat Vaerà 5771


E disse il Signore a Moshè ed Aron dicendo: Se il Faraone vi parlerà dicendo Date un prodigio, e dirai ad Aron prendi la tua verga e gettala dinanzi al Faraone; diverrà un serpente.’” (Esodo VII, 8-9)

La maggior parte della Parashà di questa settimana è occupata dal racconto delle prime sette piaghe con le quali il Signore ha colpito l’Egitto. Le ultime tre saranno narrate nella prossima Parashà di Bo. Prima però che le piaghe inizino però avviene un ulteriore incontro tra Moshè ed Aron ed il Faraone. Nel corso di questo incontro Aron esegue il prodigio della verga che si tramuta in serpente. Vale la pena ricapitolare quanto accaduto fin qui, almeno secondo il pshat, il senso immediato del Testo.

Quando Moshé riceve la rivelazione del roveto ardente ed avanza dubbi sul proprio mandato riceve dal Signore due prodigi: latzaraat della mano e la verga che diviene serpente.  Egli viene istruito di esercitarsi o comunque di riflettere su questi prodigi nel corso del viaggio verso l’Egitto. Questi stessi prodigi furono eseguiti nell’incontro con il popolo. Ed il popolo ebbe fiducia.

Poi Moshè ed Aron incontrano il Faraone per la prima volta (siamo ancora nella Parashà di Shemot) e non eseguono alcun prodigio. Il Faraone reagisce malamente alla richiesta di Moshé e decreta che non venga più fornita paglia. E qui si chiude la Parashà di Shemot. La nostra Parashà si apre con l’ordine Divino di andare nuovamente dal Faraone per un secondo incontro. Moshè è riluttante, la fiducia del popolo comincia a vacillare ma in ogni modo Moshé ed Aron si presentano per la seconda volta dal Faraone ed è in questa occasione che come preannunciato dal Signore il Faraone chiede una dimostrazione prodigiosa ed Aron esegue il miracolo della verga (e non quello della mano).

Rashì in loco spiega che il ruolo di questo prodigio è quello di testimoniare la potenza del mandante, ossia del Signore.  Sforno allarga un poco il discorso e spiega che il popolo non aveva dubbio alcuno sul mandante, ne aveva piuttosto sull’inviato. Dunque i prodigi fatti al popolo servono a testimoniare l’autenticità della missione di Moshé, laddove il prodigio verso il Faraone serve a chiarire la potenza del Signore. Forse è per questo che il prodigio della mano di Moshé non viene eseguito dinanzi al Faraone, in quanto legato al suo ruolo di profeta, che in questo caso non era in discussione.

Lo Sfat Emet spiega questo verso dicendo che la discesa del popolo d’Israele in Egitto è una preparazione per Erez Israel, secondo quanto detto dal Midrash per il quale Erez Israel è uno dei tre doni Divini che si acquisiscono attraverso la sofferenza. 

Per spiegare questa affermazione, apparentemente sconnessa dal senso del verso, il Rabbi di Gur cita il Midrash. Il Midrash Tanchumà (ma compare anche altrove) commenta il nostro verso con un insegnamento della Mishnà (Berachot 30b) ed un episodio correlato. 

La Mishnà infatti dopo averci detto che non si inizia a pregare se non con uno stato d’animo di serietà ci dice che la preghiera non va interrotta neppure se il re ci saluta o se un serpente si arrotola sul calcagno. E così anche codifica lo Shulchan Aruch (Orach Chajm, 104). Il Midrash racconta in proposito un episodio avvenuto a Rabbì Chaninà ben Dossà che viene morso da un Arod (una specie di serpente, secondo i più il risultato di un incrocio) mentre prega. Non solo Rabbì Chaninà ben Dossà non muore, ma è anzi il serpente a morire. Rabbì Chaninà ben Dossà insegna allora ai suoi discepoli: ‘Guardate figli miei, non è lArod che uccide, è il peccato che uccide.

L’episodio è raccontato con lievi varianti nel Midrash, nel Bavlì e nello Jerushalmi. Nel Bavlì sembra addirittura che Rabbì Chaninà ben Dossà crei volontariamente la situazione per liberarsi di questo serpente che aveva già fatto delle vittime. Questo per inciso apre un enorme discussione sulla liceità di mettersi in condizione di pericolo, che non affronteremo in questa occasione.

Rav Mordechai Elon shlita suggerisce che una delle chiavi di lettura va cercata nel fatto che l’Arod è un incrocio. È una specie prodotta dall’operato improprio dell’uomo che mescola specie diverse, cosa che la Torà proibisce. L’incrocio come l’innesto, ilkilaim, è il simbolo dell’intervento umano che complica la semplicità della Creazione Divina. Del contorto. L’incontro tra l’Arod e Rabbì Chaninà ben Dossà è allora l’incontro-scontro tra il contorto dell’Arod (ed il serpente è anche fisicamente contorto) e la rettitudine del Maestro. Vale la pena di ricordarlo: Rabbì Chaninà ben Dossà è uno degli esempi più forti di rettitudine e dignità in condizioni difficilissime ed in una povertà spaventosa che ha segnato la sua vita. Così allora va anche letto l’insegnamento del Maestro. È il peccato che uccide non il serpente. Secondo l’Or HaChajim haKadosh infatti gli animali possono uccidere solo se è arrivato il momento della morte di una persona. L’uomo invece è dotato di libero arbitrio e può uccidere anche una persona che non sarebbe dovuta morire in quel momento. Rabbì Chaninà ben Dossà vorrebbe allora dire che l’unica cosa di cui ci si deve preoccupare è la propria condotta.

Ricorderemo che il serpente richiama evidentemente l’episodio del peccato dell’albero della conoscenza del bene e del male. Secondo i Maestri il serpente, il Satan e l’istinto del male sono la stessa cosa.

Il Tanchumà si chiede a questo punto come mai la regola del serpente che si attorciglia mentre si prega venga associata dalla Mishnà al caso in cui il re saluti. Che nesso c’è tra il re ed il serpente? Risponde il Midrash a nome di Rabbì Jeoshua ben Pazì che il regno, il potere, ha la stessa voce del serpente ed uccide come il serpente. Ossia ha la capacità di uccidere attraverso la lechishà il sussurro. Il sussurro del serpente, con il suo veleno uccide. Le parole, sopratutto le parole del potere corrotto, uccidono.

Alternativamente il nesso è legato al percorso. Il serpente procede in maniera non lineare. Serpeggiando appunto. Così il regno ‘contorce le vie’. Non è lineare. Fa quello che gli è comodo. Ed allora dice il Midrash (spiegandoci finalmente cosa c’entra tutto ciò con il Faraone):

Così come il serpente è contorto, così il malvagio Faraone è contorto. E quando verrà ad essere contorto, dì ad Aronprendi la tua verga. Che esponga la verga dinanzi a lui, come a dire: da questa verrai punito. (Midrash Tanchumà in loco)

Il miracolo del serpente diviene allora il documento programmatico dell’uscita dall’Egitto. Il Faraone è contorto, il potere è contorto, il suo regno è contorto. Il Faraone è lui stesso il Tanin HaGadol, il Grande rettile, che se ne sta nel suo Nilo. Ebbene dinanzi al modello di un potere corrotto che serpeggia in un paese che si fonda sul dio Nilo che serpeggia nella sua terra, Iddio benedetto spiega al Farone, prima ancora che tutto cominci, il concetto di verga.

La verga di Aron diviene prima serpente, poi torna ad essere verga. E da verga divora i falsi serpenti creati dai ciarlatani di corte. Sforno sostiene che questi avevano solo la forma del serpente ma non la vita. Proseguendo sulla stessa parabola diremmo che il sistema Egitto è ormai divenuto la caricatura di se stesso.  Contorto per abitudine, senza neanche la vitalità dell’istinto del male. 
La verga, simbolo di rettitudine, è l’esatto opposto del Faraone-Serpente e dell’Egitto. È la semplicità. L’essere yashar. Retto. 

Dinanzi al sistema Egitto, Moshé dimostra con i fatti un modello di leadership retto, diretto e soprattutto semplice. Moshé, primo vero re d’Israele è anche l’uomo più modesto che ci sia mai stato sulla terra. 
Lo Sfat Emet spiega allora come l’aria di Erez Israel si respiri anche alla corte d’Egitto. Come si percepisca fin d’allora che è tutto una preparazione ad Erez Israel. Perché se lo scopo della discesa in Egitto è quello di forgiare una nazione che cresca su presupposti diversi, bisogna prima di tutto capire il senso del potere e come questo vada amministrato al servizio di D. È per questo che è così importante che Moshé esegua il prodigio della verga anche da solo mentre torna in Egitto. È lui stesso che deve capire qual’è il modello di leadership che gli viene richiesto. 

Ebbene secondo lo Sfat Emet anche Kenaan è lagato al serpente. Kenaan nipote di Noach viene maledetto con la parola arur, così come il serpente. Kenaan è attorcigliato attorno ad Erez Israel e non permette la rivelazione del ruolo specifico di Erez Israel che è la rivelazione del Regno del Signore. Il regno del male, Egitto o Kenaan che sia (dei quali la Torà ci ammonisce nella Parashà di Acharè Mot di non seguire la condotta) impedisce la rivelazione del Regno del Signore.

Per questo motivo dobbiamo anzi ricordare l’uscita dall’Egitto appena prima di inziare la Amidà, per liberarci dal Serpente prima di inziare a pregare.

Lo Sfat Emet fa notare che la Ghemarà (Berachot 33a) commenta la Mishnà dicendo che sebbene non si interrompa la preghiera per il serpente si interrompe per lo scorpione. Or Israel spiega che il serpente è legato spiritualmente al concetto di calore (Cham - caldo - è il padre di Kenaan), mentre lo scorpione è legato al freddo. Il freddo dello scorpione sarebbe allora la tristezza e la depressione. Quella stessa depressione simboleggiata da Amalek che karechà, ti ha raffreddato. Lo scorpione-freddo-depressione è il male peggiore. Secondo lo Sfat Emet (che cita lo Zohar) Amalek, Lavan e Bilam sono la stessa radice. Ebbene saremmo allora discesi in Egitto come male minore rispetto a Lavan-Amalek. (Un arameo voleva distruggere mio padre, e scese in Egitto...) Perché è un male che non siamo ancora pronti ad affrontare.
Ebbene è interessante notare che esiste una specularità nella conquista di Erez Israel. Infatti tre sono i comandamenti che abbiamo nell’entrare in Israele: nominare un re, costruire il Santuario e distruggere Amalek. Ossia istituire un modello di leadership che sia diverso ed alternativo al sistema serpente, costruire il Santuario nel cui Santissimo assieme alla Torà c’è la verga di Aron fiorita, e cancellare Amalek, quel male peggiore del Faraone stesso. 

Un ulteriore elemento sul quale dovremmo riflettere è il pozzo di Josef. Nel pozzo come è noto non c’è acqua ma secondo i Saggi ci sono serpenti e scorpioni. Lo Zaddik si scontra con tutti i mali, con il caldo del serpente Egitto e Kennan e con il freddo di Amalek ed esce fuori dal pozzo perché è il peccato che uccide, non il serpente né lo scorpione. La definizione del Faraone, la prima cosa che ci viene detta di lui, è che non conosce Josef. Il Faraone è scollegato da un modello di potere che pure ha lasciato una traccia persino in Egitto. Il modello della modestia di Josef.

L’uscita dall’Egitto è il momento fondante del popolo d’Israele. Essa avviene attraverso i prodigi e sopratutto le piaghe. Ma prima delle piaghe, il prodigio della verga ci fornisce una chiave di lettura del tutto particolare per gli eventi che portano alla vera nascita d’Israele. La verga è il contesto. È allora affascinante che il Midrash dica che le iniziali delle piaghe Dezach Adash Beachab erano iscritte sulla verga. 

Quella verga che fiorirà per insegnare che il Regno è del Signore, è lui che incorona ogni re, ed Egli ci invierà presto il Re Messia figlio di David.

giovedì 23 dicembre 2010

I Nomi delle Stelle


Parashat Shemot 5771


E questi sono i nomi dei figli di Israele che arrivano in Egitto con Jacov, ognuno venne con la sua casa.” (Esodo I,1)

Il libro di Shemot che iniziamo a D. piacendo questa settimana, si apre con un’apparente ripetizione: l’elenco dei nomi dei figli di Jacov, le tribù d’Israele quindi, che scesero in Egitto. Il fatto che questi nomi non siano un dettaglio lo capiamo, banalmente, dal fatto che la Parashà e tutto il libro dell’esodo prendono appunto il nome... dai nomi. Shemot.

Ciò non toglie che la domanda sia pertinente: come mai la Torà, altrimenti così parsimoniosa nell’uso delle parole, sceglie di ripetere i nomi dei figli d’Israele? Questa è anche la prima domanda che Rashì si pone sul libro di Shemot.

La risposta di Rashì, che questi prende dal Midrash, è tutt’altro che semplice: “...per rendere noto il loro gradimento, che sono stati paragonati alle stelle che vengono fatte uscire e rientrare secondo il loro numero e secondo i loro nomi come è detto (Isaia XL, 26) Che fa uscire secondo il loro numero le schiere, chiamando tutti per nome.

I nomi vengono ripetuti per rendere noto il loro gradimento. Ma che vuol dire? Perché sono simpatici al Signore? E perché le stelle?

Lo Sfat Emet propone una serie di ragionamenti sul commento di Rashì.
I nostri Maestri hanno insegnato che gli angeli, messi del Signore, prendono nome dalla loro missione. Il nome descrive la loro missione: gli viene assegnato assieme ad essa, e con essa finisce. Anche il creato ed in particolare gli astri vengono chiamati ‘Schiere del Cielo’ ed assieme agli angeli rappresentano il mondo spirituale. Il Midrash ci sta allora dicendo che lo stesso vale, con qualche distinguo,  per i figli d’Israele.

Ed a chi viene reso noto il loro gradimento? Certamente ai figli dIsraele stessi. Che sappia ognuno che è parte delle Schiere Divine. E come le stelle illuminano la notte così sono stati mandati i figli dIsraele in Egitto per trovarvi illuminazione anche lì (Sfat Emet 5632) 

Quello che il Midrash ci vuole dire è che quantunque saremmo portati a vedere la schiavitù egiziana come un evento totalmente negativo, dobbiamo ricordare che vi siamo entrati con i nostri nomi. Ossia che quello era ed è il nostro ruolo. Illuminare il buio. Illuminare quel Mizraim, che è simbolo di ogni tzar, ogni ristrettezza. Anche oggi. Per questo il termine è al presente, che arrivano, perché in ogni momento i Nomi giungono con noi in ogni piega della storia. Per questo, spiega il Rabbi di Gur, Rashì tiene a sottolineare che è stata una dimostrazione di gradimento. Di chibbà. Non è una punizione. È paradossalmente la dimostrazione dell’amore Divino che ci chiama ad un compito che può anche essere difficile o sgradevole ma è pur sempre ciò per cui siamo stati creati. Illuminare il buio. Rivelare il dominio di D..

Lo Sfat Emet dice appunto che il termine galut, esilio, ha la stessa radice di ghilui, rivelazione. Lo scopo dell’esilio è che Israele riveli al mondo il Shem Kevod Malkuto, il Nome Glorioso del Suo Regno. La redenzione è infatti in primo luogo la rivelazione del Nome di D.. Questo avviene attraverso la comprensione che tutto è volere del Signore, anche l’esilio. L’esilio, il momento in cui potremmo essere portati a pensare all’abbandono da parte di D., raggiunge il suo scopo quando noi sappiamo spiegare al mondo che anche questo è volere di D.. La nostra spiegazione dell’esilio è la spiegazione del nostro nome, del nostro ruolo, ma anche la spiegazione, per quanto possibile del Nome di D.. 

Perché il nome è il ricordo e lallusione al corpo di colui che è chiamato. E così anche il Suo Nome Benedetto è ciò che è percepibile in questo mondo attraverso i suoi prodigi ed attraverso i figli dIsraele che rendono unico il Suo Nome [nel senso che] rendono percepibile la gloria del Suo Regno in questo mondo e questa è la dimensione del Suo Nome Benedetto. Poiché tutte queste prodezze come luscita dallEgitto e simili, sono lontane dal [lessere descrittivi de] la Sua Essenza Benedetta, e per questo è chiamato con il termine Shem, il Nome.

Ossia, anche il nome di D., che noi non pronunciamo neppure tanta è la sua sacralità, è solo la suprema e rivelata descrizione in termini umanamente percepibili della Sua Gloria. In vero il Signore non è neppure descrivibile dal Suo Nome. Cionondimeno noi dobbiamo tentare di spiegare il creato, di rivelare che tutto è espressione del Suo Nome. 

Il verso di Isaia che Rashì cita sottolinea la capacità Divina di dare un nome ed un numero alle stelle. Lo Sfat Emet dice che questa capacità è la prerogativa Divina di trasformare l’infinito in finito. Le stelle sono infatti, per quel che concerne l’uomo, senza numero.Avraham viene sfidato a contare le stelle, ‘se sarai capace di contarleEppure per il Signore che le ha create dal nulla esse hanno numero e nome. È cosa non percepibile per l’uomo, ma lo Sfat Emet insiste che se le stelle sono finite in questo mondo (e neppure possiamo contarle) esse sono spiritualmente infinite e questa è la grandezza del Signore che ‘crea il cè dal nulla e rende numero ciò che non ha numero

C’è un verso dei Profeti che dice ‘perché io Sono il Signore e non sono cambiatoQuesto intende, spiega lo Sfat Emet, che non solo il Signore è immutabile, ma anche il senso profondo della Sua rivelazione, il Suo Nome, non cambia. Per quanto a volte noi usiamo kinuiim, appellativi, diversi per la Divinità a seconda della nostra percezione dei diversi attributi Divini, in realtà anche il Nome è immutabile. Il Suo Nome è unico sia quando viene rivelata la Torà sul Sinai che nel momento in cui l’aguzzino egiziano di turno getta i bambini nel Nilo. Allo stesso modo sono immutabili i nomi d’Israele a differenza di quelli degli angeli.

Il merito d’Israele è quello di non cambiare i Nomi in Egitto. Di capire che la nostra missione di rivelazione del Regno del Signore è immutabile tanto in esilio che in redenzione. Quelli erano i nostri nomi prima e quelli sono dopo. Noi restiamo noi, con i nostri nomi ed il nostro ruolo a prescindere dalle condizioni esterne. Per questo, spiega il Rabbi di Gur, la Torà ci sta dicendo che i nomi sono scesi in Egitto. La radice di rivelazione e redenzione precede l’esilio stesso secondo il principio per il quale Iddio prepara la medicina prima ancora della malattia.

Eppure il nome non è dato staticamente. È piuttosto il modello al quale dobbiamo fare riferimento. Il verso dell’Ecclesiaste ‘È meglio il nome, piuttosto che dellolio buono che noi usiamo nella liturgia funebre è letto dal Midrash come dire meglio Channanià, Mishael ed Azarià che sono usciti dalla fornace che Nadav ed Aviù che sono rimasti bruciati. L’olio sarebbe l’olio del’unzione sacerdotale di Nadav ed Aviù, in qualche modo un’elevazione istituzionale. Channanià, Mishael ed Azarià sono invece il buon nome inteso come lo sforzo umano di essere fedeli servitori del Signore anche senza cariche ereditarie come il sacerdozio. 

Il buon nome, la cui corona secondo il Pirkè Avot, è superiore alla corona del Sacerdozio del Regno e persino a quella della Torà, è la capacità umana di sforzarsi, di migliorarsi. 

Secondo il Midrash le stelle sono state aggiunte nel buio della notte per consolare la luna dopo che questa è stata diminuita (rispetto al sole). Per lo Sfat Emet il regno notturno della luna è simbolico del Regno del Signore che è stato diminuito nella materialità di questo mondo. Il dramma è che la luce della luna non è proprio fortissima. Il buio della materia rende difficile la percezione del Regno del Signore. Ecco allora le stelle, simbolicamente i giusti del popolo d’Israele, aiutare la luna nel suo compito. Per questo le stelle, Israele, sono scese nel buio dell’Egitto. Per illuminare lì dove meno è percepibile la luce del Signore. Dove la materia è più densa. Dove lo spirito fatica a penetrare.

È detto nel libro di Daniel “Ed i colti splenderanno come lo splendore del cielo e coloro che rendono giusti i molti saranno eterni come le stelle”. (Daniel XII,3)

Secondo il Rabbi di Gur i colti sono i Patriarchi mentre coloro che rendono giusti i molti sono le tribù. In questo senso la caratteristica delle tribù è quella di espandersi. Di essere moltiplicatori. Sono paragonate a tutto il popolo d’Israele. I patriarchi sono invece la radice. L’interiorità. Sono paragonati dallo Sfat Emet ai yechidè segulà, ai singoli tesori, a quelle persone che si distinguono particolarmente. Al giusto. Per questo è detto nel verso che giunsero con Jacov ed assieme alla loro casa. Si tratta della caratteristica unica di Israele di essere al contempo legata alla radice, ai patriarchi, all’interiorità, ma al contempo capace di farsi multiplo attraverso la famiglia, la casa, il rapporto di coppia. 

Il nostro Rabbì Ovadià Sforno utilizza questo stesso verso nel suo commento alla Parashà di Balak per descrivere il Re Messia nella sua materialità. Se noi saremo veramente capaci di mettere assieme Jacov con le tribù, il cielo con le stelle, il più semplice degli ebrei con lo zaddik saremo allora degni del nostro nome e porteremo redenzione al mondo.

Quel nome che Iddio ha chiamato attraverso il Suo stesso Nome. 

La sfida del libro di Shemot è allora proprio la capacità d’Israle di portare degnamente il suo nome divenendo unificatore e descrittore del Nome di D.. Tanto più saremo degni del nome d’Israele tanto più il Signore sarà Unico ed il Suo Nome Unico.

Jacov, il giovane


Parashat Vaichì 5771



E visse Jacov nella terra dEgitto diciassette anni…” (Genesi XLVII, 28)

La Parashà di questa settima completa il ciclo della vita dei nostri Patriarchi. In maniera paradossale la Parashà che tratta la morte terrena di Jacov nostro Padre, si apre con la parola, vaichì, e visse. Questo termine ha ovviamente incuriosito i nostri Maestri. L’idea di fondo, e ne abbiamo parlato più volte è che vita e morte sono concetti relativi. In una nota idea talmudica i giusti sono chiamati vivi anche da morti, perché si parla di loro e della loro Torà. I malvagi invece sono considerati morti già in questa vita. Perché sono morti spiritualmente. Jacov ha vissuto profondamente questi ultimi diciassette anni di vita. Li ha riempiti di vita, di significato, di Torà, di famiglia e di tanti nipoti. In realtà sappiamo molto poco di questi anni. La Torà ci racconta l’arrivo di Jacov e famiglia, ma non ci dice niente di ciò che avviene dopo. Il discorso riprende, appunto nella nostra Parashà, negli ultimi momenti di vita di Jacov.

Lo Sfat Emet ritiene che Jacov sia riuscito a portare in Egitto, nel più basso e materiale dei luoghi, la spiritualità del suo livello. Jacov compie in questo senso un operazione straordinaria. Riesce, pur scendendo nell’esilio, ad illuminare il buio rendendolo un luogo di vita.E visse Jacov. Di più dice lo Sfat Emet, Jacov non solo è coscientemente sceso in esilio ma è anche andato volontariamente in ogni ‘malein ogni situazione problematica in modo da preparare la strada per ogni futura difficoltà che avrà il popolo d’Israele. Così il Rabbi di Gur legge l’introduzione alla benedizione di Efraim e Menashè. ‘langelo che mi ha redento da ogni male…; da ogni malenel senso che Jacov ha effettivamente sperimentato ogni male. E lo ha vinto. Lo ha vinto affinché Israele potesse in futuro avere la forza di confrontarsi con tutte le peripezie che ha avuto nella sua storia.

Quest’idea di Israele popolo come proiezione di Israele patriarca porta i nostri Saggi a dire nel Talmud che ‘Jacov nostro padre, non è morto. In un certo senso Jacov si trasforma da singolo a popolo ma non muore. È vivo in ogni momento.

Quest’idea di proiezione è fortemente legata al rapporto intergenerazionale. Jacov nostro padre sembra avere una predilezione per i piccoli. Sappiamo che studiava Torà con il piccolo Josef prima che questi fosse venduto. I Saggi ci dicono che in Egitto studiava con Efraim suo nipote. In effetti l’unica cosa che la Torà ci narra di quegli anni è proprio l’incontro-benedizione con i figli di Josef. La storia è nota e le ripercussioni anche: Jacov inverte la direzione delle mani ponendo la destra riservata alla primogenitura su Efraim quantunque fosse il piccolo.

Il testo dice che mise la mano sulla testa di Efraim “veu hazair, ed egli era il giovane.

Lo Sfat Emet commenta in maniera apparentemente criptica questo episodio. Egli dice che dopo aver messo la mano destra su Efraim, “egli rimase il giovane per se stesso.

Chi rimase giovane? Efraim? Jacov? E pechè per se stesso?

Lo stesso dobbiamo chiederci per il nostro verso a questo punto. Jacov mette la mano sulla testa di Efraim che era il giovane, oppure piuttosto la Torà ci sta dicendo che nel mettere la mano sulla testa di Efraim è Jacov ad essere quello giovane.

A mio modesto avviso il Rabbi di Gur sta proponendo qui una lettura stratificata dell’episodio.

Jacov di inversioni di primogentiti con i giovani ne sa qualcosa. Si è scottato già tre volte almeno: lui è stato il giovane che ha preso il posto del primogenito. La donna che ha amato più di ogni altra cosa, Rachel, è stata la giovane alla quale la primogenita ha preso il posto. Il figlio che ha amato più di ogni altro, Josef, è stato il giovane che ha preso il posto di primogenito. Nessuno di questi episodi è stato indolore. Sono tutti traumi. Per il Rabbi di Gur la Torà ci sta dicendo che Jacov inverte le mani proprio perché è lui il giovane. Proprio dalla posizione dell’essere giovane Jacov prende questa decisione. Lo Sfat Emet dice che nonostante l’anteposizione e la conseguente primogenitura, Jacov rimase ai propri occhi il giovane. Forse avvenne lo stesso per Efraim. E forse è proprio questa condizione che Jacov vede e privilegia.

Sembra quasi che essere zair , essere giovane sia una condizione esistenziale piuttosto che un dato anagrafico. Per capire questo punto dobbiamo riflettere su un altro aspetto di questa benedizione che Jacov da ad Efraim e Meneshè. In questo caso, nonostante l’inversione non c’è conflitto. Ognuno sa essere se stesso. Ha sì privilegiato Efraim, ma Efraim resta il giovane. Menashè non è mortificato. Senza Menashè non è completa la benedizione che ogni padre ebreo da ai suoi figli ‘ti renda simile Iddio ad Efraim e Menashé’. Perché un figlio come loro è quanto un padre può desiderare. Diversi, con indoli diverse, con ruoli diversi e con priorità diverse, ma entrambi esattamente ciò che Iddio vuole. Perfetti nella loro autoreferenza. Non uno rispetto all’altro. Efraim resta il giovane ezel azmò per se stesso, perché non deve essere paragonato a Menashè. Jacov capisce ed insegna dopo una vita di tribolazioni su questo punto che ogni figlio è una perla irripetibile che come tale non va paragonata alle altre.
                                                                                               
Lo Sfat Emet ricorda come, tra tutte le benedizioni dei figli in questa Parashà, Josef è l’unico a cui il Testo associa la parola berachà.Le altre benedizioni vengono dette. Qui Josef viene benedetto. Egli commenta che il concetto di berachà, di cui altre volte ci siamo occupati, racchiude l’idea di riversare, di tirare, di proiettare. È il passaggio dell’infinito nel finito. Berachà, viene dalla radice di berechà, cisterna. Quasi ci fosse un contenitore spirituale dal quale il sacro si riversa. Ebbene questa è la caratteristica appunto di Josef, che Jacov così ama. La capacità di trasmettere benedizione, di proiettare soprattutto sulle generazioni future. Un’altra derivazione della parola bereachà è la parola berech, ginocchio. L’idea è che proprio inginocchiandoci riconosciamo l’autorità di D. ed il fatto che tutte le benedizioni vengono da Lui. La benedizione è anche e soprattutto allora il riconoscimento dell’origine Divina di tutto quanto accade. È interessante notare che questa caratteristica di Josef, che ripete a iosa che tutto viene dal Signore viene recepita in qualche modo anche dagli egiziani. Quando Josef  viene nominato Vicerè, la prima cosa che gli viene gridata al passaggio è Avrech, in ginocchio.

Non è certo un caso che anche nella nostra Parashà, le ginocchia di Josef vengono ricordate due volte. Josef nel presentare i figli alla benedizione di Jacov li fa uscire dalle proprie ginocchia. In questa descrizione così autentica della Torà, dei ragazzini intimoriti si erano evidentemente attaccati e nascosti tra le ginocchia paterne. Ma il senso è più profondo. Efraim e Menashè escono dal concetto stesso di Birkè Josef. Hanno fatto loro il principio della Berachà, dell’origine Divina di tutto, che Josef ha insegnato loro . È fantastico che Jacov stesso sia stupito di questa profonda identità tanto da costringere Josef, secondo il Midrash, a mostrare lui la Ketubà che attesta l’origine sacra della propria progenie.

Ma Josef non si ferma, negli ultimi versi della Parashà, è descritta la vecchiaia di Josef. Di nuovo sappiamo pochissimo. Non sappiamo se sia rimasto al potere fino alla fine. Non sappiamo che ne è stato delle sue politiche agrarie. Sappiamo una cosa sola e solo quella conta: ha visto figli, nipoti e bisnipoti. ‘..anche i figli di Machir, figlio di Menashè nacquero sulle ginocchia di Josef.

Non sappiamo niente. Sappiamo solo che i bisnipoti di Josef sono nati sulle sue ginocchia.

Questa è la grande lezione di vita di Jacov prima e Josef poi, in Egitto. Nel luogo dove si ammazzano tutti i bambini, egiziani compresi, per capriccio del tiranno di turno, c’è una famiglia, una cultura, nella quale il metro di una vita è la capacità di crescere nella Torà un bisnipote sulle proprie ginocchia.

La grande scommessa d’Israele è proprio nella capacità di creare le condizioni perché le generazioni si parlino. Perché nonni e nipoti comunichino. Il problema è che spesso le generazioni parlano lingue diverse. Ne sappiamo qualcosa noi. La maggior parte delle cose di cui parlano o si occupano i nostri ragazzi non esisteva nemmeno all’epoca dei loro genitori, figuriamoci dei loro nonni. Come si fa a parlarsi?

Lo si può fare solo se si riscopre che ci sono idee senza tempo, valori che non scadono e non aspettano nuove edizioni. Solo se capiamo che la Torà è la nostra vita potremo attraverso la Torà trovare quel linguaggio comune che così manca al giorno d’oggi.

Josef e Jacov non si sono visti per una vita. Il padre non sa nulla di cosa sia il figlio oggi e non è detto che avrebbe capito o metabolizzato le sottigliezze del politichese di corte. Ed il Midrash ci dice infatti che parlarono dell’ultima lezione studiata assieme: il precetto della Eglà Arufà, la giovenca accoppata.

Se saremo capaci di riscoprire la profondità della condivisione della Torà tra le generazioni faremo un gran regalo a noi, ai nostri anziani ed ai nostri bambini.

Restando ognuno giovane per se stesso.

La Mishnà di Jeudà



Parashat Vajgash 5771

E si appressò a lui Jeduà... (Genesi XLIV, 18)

La Parashà della nostra settimana segna la ricomposizione della frattura tra Josef ed i suoi fratelli. Il suo momento di maggior tensione è senz’altro nei primi versi nei quali Jeudà emerge nuovamente e definitivamente come il leader dei fratelli e si lancia in un arringa al termine della quale Josef non riesce più a trattenersi e si rivela ai fratelli.

Che cos’ha di particolare questa arringa? I nostri Maestri riflettono molto sulla parola ‘vajgashcon la quale si apre la Parashà e dalla quale prende appunto il nome. Potremmo tradurre come e si appressò e si avvicinò o ancora e si appropinquò. Il termine indica appunto tanto un avvicinamento fisico verso un oggetto o una persona di grande importanza quanto un atteggiamento di preparazione.

I Saggi hanno provato a dare diverse spiegazioni della struttura e del tono del discorso di Jeudà, spiegazioni che spesso sono assolutamente contrastanti. Forse perché il discorso stesso non è esattamente lineare. Rashì ad esempio sostiene che Jeudà ‘gli parlò duramenteRabbenu Bechajè di contro, nella sua introduzione alla Parashà, insiste proprio sulla ‘morbidezza del discorso di Jeudà.

È in effetti un discorso nel quale si mischiano rabbia, rispetto reverenziale verso una persona potente, disperazione, fiducia e tanto altro. Questo mix di espressioni che certamente è lo specchio del mix di sentimenti, forse anche contrastanti, che provava Jeudà in quel momento critico, è in qualche modo risolutivo, tant’è che Josef crolla.

Lo Sfat Emet sottolinea come in realtà non ci sia nulla di nuovo nel discorso di Jeudà. Egli piuttosto riassume gli avvenimenti, li ripete e forse li rivive. Proprio in questa ripetizione c’è però la chiave per comprendere il ruolo di Jeudà. Il nome Jeudà contiene la radice dileodot, che significa ringraziare ma anche e sopratutto accettare. A nome del nonno, il Chidushè HaRim, il Rabbì di Gur ricorda come noi veniamo chiamati Jeudim, giudei, proprio perché la nostra caratteristica è quella di ringraziare Iddio per ogni cosa, grande o piccola che sia. Ma anche per la nostra accettazione del principio che ogni cosa viene dal Signore. Jeudà allora non è solo il nome della persona ma è anche l’atteggiamento. Jeudà accetta.

Il percorso spirituale che fa Jeudà attraverso il discorso a Josef è allora per lo Sfat Emet un percorso introspettivo. Jeudà riassume gli eventi per razionalizzarli. Per accettarli ed accettare la Volontà del Signore Benedetto Sia, con gioiaEcco allora che l’avvicinarsi “elav, a lui, del nostro verso va oltre il senso immediato del Testo, ovvero ad indicare Josef. Ma può essere letto anche a lui, nel senso a se stesso, oppure a Lui, per eccellenza, ossia al Santo Benedetto Egli Sia. In questo Vajgash, è racchiusa la tensione di Jeudà che è al contempo verso Josef, verso se stesso ed in definitiva verso il Signore. Jeudà scende in profondità. Per riappacificarsi con Josef egli deve prima fare pace con se stesso, ed in qualche modo anche con il Signore.

Josef rappresenta invece nella simbologia dello Sfat Emet la profondità stessa. La radice sacra nascosta all’occhio esterno. È il sacro nascosto in profondità che va ricercato. Josef è linteriorità. È per questo che quando Jeudà, scavando dentro se stesso, e ripercorrendo gli avvenimenti ed annullandosi dinanzi al Signore giunge a quel livello di interiorità, la dimensione di Josef non può più celarsi, e Josef si rivela facendo dirompere l’interiorità.

È interessante che la tecnica utilizzata da Jeudà per scendere in profondità è apparentemente piuttosto poco accattivante. La ripetizione. In realtà Jeudà è il precursore del metodo attraverso il quale si studia la Torà: la Mishnà. La radice della parola Mishnà, insegnamento, incorpora il concetto di shanà (shin, nun, hei) il ripetere. Lo studio della Torà è Mishnà in quanto si ripete. Per capire la Torà, bisogna studiarla, e ripeterla e tornarvi sopra senza fine. La radice shin, nun, hei, che significa anche anno e riassume il concetto di tempo nella sua ciclicità, lega il concetto di studio a quello del tempo. Lo studio ha i suoi momenti, ma anche i momenti prendono vitalità attraverso lo studio. Quasi che studio e tempo fossero un tutt’uno.

In una delle acrobazie che solo l’ebraico può produrre, in questa ciclicità solo apparentemente statica si trova il shinui, il cambiamento. Quasi che solo tornando sullo stesso passo, solo ragionando senza fine sugli stessi concetti si possa produrre qualcosa di nuovo. Jeudà è dunque colui che introduce il sistema della Mishnà ed è appunto paragonato alla Torà Orale, laddove Josef è invece il simbolo della Torà Scritta. Josef e Jeudà sono due modi diversi ma complementari di servire il Signore e di vivere il proprio rapporto con il Sacro. Attraverso la Mishnà, la ripetizione, Jeudà interpreta Josef, la Torà scritta, se stesso, ed in definitiva e per quanto umanamente possibile capisce meglio l’opera Divina.

Non ci deve allora stupire che il ruolo di avanguardia che Jacov assegna a Jeudà nel preparare la discesa della Casa d’Israele in Egitto, viene percepito dal Midrash come la richiesta di predisporre un Bet Talmud, una Casa di Studio, in Egitto. Prima ancora che l’esilio inizi, per non dire prima ancora che la Torà venga donata sul Sinai, il sistema ‘Bet Midrash’ con la sua dialettica e soprattutto con la sua paziente ciclicità è parte integrante del popolo ebraico.

Lo Sfat Emet fa notare come la caratteristica di Jeudà e della Torà Orale sia nella pubblicità. Nella rivelazione. Laddove la caratteristica di Josef e della Torà Scritta è nel segreto. Se Jeudà scende in Egitto con l’intenzione rivelata di aprire una Scuola, Josef scende in Egitto in solitudine ed in segreto, e sopratutto nel segreto di un identità ebraica che per ovvie ragioni non può essere sbandierata più di tanto, nonostante i sinceri tentativi di Josef. Rivelato e segreto sono due anime della Torà.

Ma il Rabbi di Gur non tralascia di ricordare il fatto che su tutti questi discorsi e sulla complessità della rottura e della riappacificazione tra Jeudà e fratelli con Josef aleggi in maniera neppure molto velata il trauma della vendita. Jeudà non la nomina nel suo discorso, ma Josef non solo la ricorda, ma anzi la usa per definirsi. La rivelazione di Josef avviene in due fasi:

E disse Josef ai suoi fratelli: Io sono Josef, mio padre è ancora vivo? (Genesi XLV,3)
Josef si definisce con il proprio nome e basta e chiede del padre. I fratelli non riescono neppure a rispondere per lo shock. A quel punto succede una cosa incredibile. È Josef che usa il termine lagheshet e chiede ai fratelli quell’ulteriore sforzo che ha fatto Jeudà prima di loro. Vajgàshu. E si avvicinarono. Ed è a questo punto che Josef si definisce in maniera diversa:

E disse: Io sono Josef vostro fratello, che mi avete venduto in Egitto. Ed ora non vi intristite e non dispiaccia ai vostri occhi di avermi venduto qui, perché come sostentamento mi ha inviato Iddio dinanzi a voi... ed ora non voi mi avete mandato qui, ma Iddio, che mi ha posto come padre per il Faraone e come signore per tutta la sua casa e come governante su tutta la terra dEgitto. (ivi, 4-9).
Josef si definisce in quanto tale. Josef è rimasto Josef. L’interiorità non cambia. Sono i fratelli che non possono capire e devono fare uno sforzo. Lo sforzo passa per capire e razionalizzare le loro azioni, e sopratutto la vendita. ‘Io sono Josef e sono il risultato della vostra vendita’. Però quella vendita è sì opera vostra con annesse responsabilità, ma è allo stesso tempo nel piano del Signore. Da qui capiamo che è veramente tutto per il bene. Il risultato è sempre per il bene. Il male è intrinseco alle nostre azioni. Una volta fatta teshuvà e sanate le nostre responsabilità possiamo vedere come anche il risultato delle nostre azioni sbagliate è in bene. Con un percorso diverso, difficile, doloroso, ma pur sempre in bene. Perché tutto quanto Iddio fa è in bene.

Lo Sfat Emet Emet paragona la costruzione grammaticale del che mi avete venduto, con quella delle prime Tavole che hai rotto.Il termine asher, che è letto in quel caso dal Midrash come ‘Yeshar Kochacà Bravo!Si riferisce al fatto che Iddio ha apprezzato la rottura delle Tavole. Lo Sfat Emet vuole dire che così come l’apparente sacrilegio della rottura delle Tavole è un fatto positivo, così Josef consola i fratelli dicendo loro che la sua vendita ha avuto un risultato straordinario.

Cercando di approfondire questo paragone apparentemente azzardato del Rabbi di Gur, potremmo dire che la rottura delle Tavole sintetizza l’inadeguatezza d’Israele, la necessità di una migliore preparazione e lastrica la via della Torà, della Teshuvà e delle Seconde Tavole. Allo stesso modo Josef spiega ai fratelli che loro malgrado hanno creato le condizioni per una Teshuvà e per una situazione estremamente positiva. Sono stati strumento della Volontà Divina. Attenzione, questo non cambia di una virgola le loro responsabilità, ma una volta fatta teshuvà, e loro hanno fatto teshuvà, non c’è più nulla da recriminare.
Josef insegna loro che l’interiorità non è intaccabile, il disegno Divino è perfetto. È l’azione umana ad essere fallace. Ma l’errore può essere sanato.

Il motivo per cui noi non capiamo gli eventi è che proviamo a leggere le nostre vite ed il mondo che ci circonda in maniera lineare, secondo un prima ed un dopo. I Saggi ci hanno insegnato che “non cè un prima ed un dopo nella ToràCiò significa che non sempre i versi della Torà seguono perfettamente l’ordine cronologico, ma ha anche delle ripercussioni più profonde.

Chiunque abbia mai aperto una pagina di Talmud si rende presto conto che non ha senso dire che un trattato viene prima dell’altro. E questo perché già nelle discussioni del primo trattato di Berachot si chiamano in causa principi ed argomenti che saranno dibattuti solo molto più avanti. I Maestri della Mishnà e del Talmud parlano sempre come all’interno di un unicum nel quale, pur saltando da un punto all’altro con criterio, non si può mai dire cosa venga prima di cosa. Studiando il trattato di Shabbat sembra che si dovrebbe aver già studiato il trattato di Eruvin, ma quando si studia Eruvin si pensa che si sarebbe dovuto prima conoscere quello di Shabbat. Ma, anche all’intero dello stesso trattato, argomenti che verranno discussi più avanti vengono usati per definire questioni che poi avranno ripercussioni sui quegli stessi argomenti in un loop infinito. Proprio la ciclicità dello studio provoca il fatto che non c’è un prima ed un dopo ma è tutto al presente. Le scorse settimane abbiamo visto come il concetto di tempo sia estraneo alla Divinità. Ebbene la Torà, che come spiega lo Zohar è un tutt’uno con D. Benedetto Sia, è anche fuori dal tempo.

Ed è proprio quest’idea dell’unità, dell’unicità del Signore che deve generare lo stimolo per l’unità dei fratelli. Le diverse idee e le diverse vie per servire il Signore debbono trovare la loro unità. Questo è però possibile solo quando, oltre all’evidente dose di rispetto reciproco necessaria, si capisce che l’Unico che può avere una vera visione d’insieme è il Signore. La nostra porzione della visione d’insieme esiste solo in quanto ci annulliamo dinanzi al Signore ed accettiamo il suo dominio della storia e delle ripercussioni delle nostre azioni. Azioni che noi abbiamo preso nel completo libero arbitrio ma che non per questo sfuggono alla conoscenza ed al controllo del Signore.

In un epoca che privilegia la continua innovazione dobbiamo allora riscoprire il fascino della ripetizione. Dello studiare continuamente e ciclicamente, tornando, ripetendo senza fine perché come dicono i Saggi ‘non assomiglia chi ha studiato la propria porzione cento volte a colui che lha studiata cento e una volta.
È dalla ripetizione che sgorga il chidush, linnovazione. E quanto più saremo capaci di ripeterci e di riesaminarci, tantopiù la nostra sorgente interiore potrà sgorgare fuori.