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mercoledì 25 marzo 2009

Un Capretto ed El Norà Alilà

È con grande sorpresa che quest'anno, insegnando a mia figlia 'Un capretto, Un capretto', la versione degli ebrei romani per il tradizionale Chad Gadià, che conclude il Seder di Pesach ho notato una cosa che mi era sempre sfuggita.

La prima strofa del Capretto è cantata con la stessa identica musica di El Norà Alilà, la composizione con la quale si introduce la preghiera conclusiva del giorno di Kippur.

Chi ha un minimo di dimestichezza con le musiche degli ebrei romani (ma anche degli altri riti) saprà che quando si usa una stessa musica non è per coincidenza. C'è un messaggio sotto traccia che va ricercato.

Ho sentito dire una volta da Rav Morechai Elon shlita che noi dovremmo studiare i pyutim, le composizioni poetiche che accompagnano la nostra liturgia, con la stessa serietà con cui studiamo il resto degli scritti dei nostri Maestri.

Ma che nesso c'è tra il Capretto ed El Norà Alilà?

In primo luogo entrambi concludono un momento importante: da una parte il giorno di Kippur, dall'altra il Seder di Pesach. La chiusura delle porte del Santuario, alla quale El Norà Alilà, segnalava la conclusione della giornata nel Santuario e conseguentemente la conclusione delle cerimonie del Kippur. Allo stesso modo si usa cantare il Capretto nel momento in cui si è terminato il cerimoniale del Seder.

I due canti sono fondamentalmente due affermazioni di fiducia nella salvezza del Santo Benedetto Egli Sia. Il Capretto ruota attorno alla salvezza d'Israele dagli oppressori e dalle nazioni che hanno cercato di annientarci. El Norà Alilà ruota attorno alla salvezza ed il perdono Divino per le nostre trasgressioni; la salvezza del nostro mondo interiore.

Paradossalmente a Kippur subito dopo la Neilà si mangia. A Pesach subito dopo il Seder, non si mangia fino all'indomani per preservare in bocca il sapore del Afikomen. (e del Korban quando c'era).

Un altro interessante paradosso è che nel Capretto si parla anche di Kippur ed in El Norà Alilà si parla anche di Pesach. Una delle letture della parabola del Capretto vuole che Israele sia il capretto che il Padre, il Signore ha acquistato per due zuzè, per due monete che rappresentano le due Tavole. Il kinjan, la proprietà che D. esercita su Israele è sancita dalla Torà. Ma Kippur è proprio il giorno delle seconde Tavole. Il giorno del vero Matan Torà. Il capretto ci richiama anche al capro - o meglio ai capri - di Kippur. Due capri identici uno per il Signore ed uno da mandare ad Azazel. Due capri identici come erano identiche secondo il Talmud le due Tavole. Come sono identiche due monete - che nell'antichità erano tra i pochissimi oggetti ad essere fabbricati in maniera identica. Anche El Norà Alilà, che verte sul perdono, si conclude con un richiamo alla gheulà, alla redenzione che celebriamo proprio a Pesach.

Dal punto di vista liturgico Pesach e Kippur sono i due momenti chiave del culto nel Santuario. Il cerimoniale di Kippur ruota attorno ad un uomo solo, il Sommo Sacerdote. Kippur è un giorno al singolare. Yomà. Il giorno. Secondo i Maestri, spiritualmente, il primo giorno della Creazione in cui il Signore era solo. Kippur è il giorno dell'introspezione. A Pesach anche c'è un gran da fare al Santuario ma al contrario nella molteplicità. Tutto Israele presenta il suo Pesach. Ogni nucleo familiare presenta il suo Korban. Neppure tutti assieme. In tre separate cerimonie, con tre gruppi. E' tutto multiplo a Pesach. Le kitot, ossia i gruppi, i figli, i bicchieri di vino fino alle piaghe con le quali i Maestri 'giocano' alle moltiplicazioni durante il Seder. Appena prima del Capretto continuiamo a 'giocare' con i numeri con 'Uno chi sa?'.

La Mishnà nel trattato di Pesachim (V,5) prevede che tra ognuna delle tre cerimonie del Pesach si faccia la neilat Shearim. Si chiudano le porte della azarà, del cortile interno. Esattamente come alla fine della giornata, nel momento che celebriamo con El Norà Alilà.

Anche qui il rapporto è rovesciato. Quando avviene la neilat shearim, alla sera, significa che tutti sono usciti. Tutti fuori. Resatano solo i Coanim di guardia. Quando Kippur finisce e si chiudono le porte, torniamo tutti fuori, nel mondo reale. La Torà dice che a Kippur escono tutti. Persino gli angeli non possono entrare nel Santo quando entra il Coen.

La neilat shearim di Pesach è esattamente il contrario. Tutti dentro. Il Talmud dice che le porte si chiudevano miracolosamente da sole, ma usa anche la chiusura delle porte di Pesach figurativamente per definire una situazione in cui ci sono tutti. Le porte si chiudono per il Pesach in maniera che non entrino tutti assieme in una sola volta, perché la Torà ha comandato che ci devono essere tre gruppi separati. Si chiudono le porte per tenere tutti dentro e non far entrare oltre. Anche la sera del Seder d'Egitto le porte delle case si sono chiuse per mantenere dentro il nucleo e lasciare fuori il Distruttore. In maniera straordinaria quella stessa porta viene aperta per il Profeta Elia - di cui parla l'ultima strofa di El Norà Alilà - annunciatore della redenzione.

Il Capretto ed El Norà Alilà nascondono allora un tesoro di significati nascosti che legano Pesach e Kippur, nella loro diversità, come momenti chiave nel nostro continuo percorso al servizio del Signore. Dobbiamo essere grati ai nostri Padri che insegnandoci a cantarli - con la stessa musica - ci hanno lasciato un tesoro da scoprire.

sabato 21 marzo 2009

I Quattro Figli nel Matan Torà

E' noto che compaiono nella Torà due versioni delle aseret hadiberot, le dieci parlate: una nella parashà di Itrò ed una nella parashà di Vaetchannan. I nostri Maestri hanno attentamente analizzato le differenze tra le due versioni cercando di spiegare alcune delle piccole differenze che le caratterizzano.

Il Talmud, nel trattato di Bavà Kammà (55a) cerca di capire come mai nella prima versione non compaia la radice di tov , bene che invece appare nella seconda versione in relazione al premio per l'adempimento al precetto dell'onore che si deve ai genitori.

Dopo una serie di incertezze - non tutti sono sicuri che la prima versione corrisponda a quanto era scritto sulle prime tavole e la seconda sulle seconde - il Talmud conclude la discussione con un insegnamento a nome di Shemuel bar Nachum per il quale il motivo è da ricercare nel fatto che le prime tavole vengono rotte.

Se in esse ci fosse stata la radice tov, ciò avrebbe significato - non sia mai - l'interruzione del bene da Israele

Il Maharil spiga che il livello spirituale delle prime tavole è quello degli angeli. Israele aveva raggiunto un livello spirituale altissimo ed ara quindi scollegato dalla materialità. Questo livello non può corrispondere alla parola tov perché questa indica che qualcosa si addice ad una situazione, in questo mondo. Per definizione dice il Marhil, non è corretto descrivere l'uscita da questo mondo materiale come una cosa buona-tov. Non perché l'accettazione delle prime tavole non fosse un bene, ma perché il livello che comportava non era conciliabile - non si addiceva - a questo mondo materiale. Tant'è che quel livello non dura e le Tavole vengono spezzate. Al contrario le seconde tavole - quelle in qualche modo sono in vigore ancora oggi - rappresentano il modello sostenibile.

Rav Dessler, sulla stessa linea, spiega in Mictav MeEliau (IV, 292) che le prime tavole erano sì ad un livello superiore, ma questo livello non siamo riusciti a raggiungerlo veramente. Al contrario il livello delle seconde tavole, seppure inferiore, è un livello in cui possiamo trovare la nostra completezza. Da qui si impara che è preferibile un livello inferiore in completezza che un livello superiore che non è il nostro.

L'idea che si deve servire Iddio al proprio livello non vuole in nessun modo fossilizzare la nostra avodat Hashem, il nostro Culto. Tutt'altro. Per servire il Signore però si deve essere autentici. Rachamanà libà baè. Il Misericordioso desidera il cuore. E non si può essere autentici ad un livello che non è il nostro. L'idea dell'autenticità del livello - alla quale per il Marhil corrisponde la parola tov - è allora legata al rapporto genitori-figli nel cui comandamento è incastonata la parola tov.

Questi concetti diventano una delle principali chiavi di lettura per quello straordinario momento di rapporto inter-generazionale che è il Seder di Pesach. 'Rispetto a quattro figli ha parlato la Torà'. Non solo troviamo infatti quattro diverse domande, poste da quattro diversi figli e le loro risposte. Ma la stessa halachà è che in questa sera è obbligo del padre insegnare al figlio secondo il suo livello.

I Maestri del Mussar hanno allargato questo concetto sottolineando che anche il figlio per uscire d'obbligo deve domandare secondo il suo livello. Ognuno di noi, per uscire d'obbligo la sera del Seder, deve riuscire a fare una domanda vera. Una domanda secondo il suo livello. Deve chiedersi e chiedere qualcosa che veramente non ha capito fino in fondo. Il Saggio non esce d'obbligo con la domanda del semplice e viceversa.

Essere autentici significa però anche accettare che la vita non è statica. Non è detto che la domanda semplice che era al mio livello lo scorso anno vada bene quest'anno. Essere genuini significa capire che la vita e la Torà con essa è dinamica e che se è vero che Iddio mi chiede di essere coerente col mio livello si aspetta un lavoro sistematico perché questo livello cresca. Perché il rischio paradossalmente è duplice. Da una parte si rischia di sovrastimare le nostre capacità - ed allora si rischia di fare l'errore delle prime tavole - ma anche il rischio di sottovalutare le nostre capacità non è certo una scelta migliore.

Vale la pena ricordare in questo senso il ruolo fondamentale di Moshè. Moshè - colui che dalla nascita è chiamato tov dalla Torà - rompe le Tavole quando capisce l'incoerenza di livello che essere rappresentano.

Ed è questo gesto, che D. approva, che secondo Rashì è la summa della vita di Moshè che viene celebrata negli ultimi versi della Torà. Un monumento alla autenticità.

giovedì 19 marzo 2009

Cosa vede un manigh

Il Talmud (Bavà Kammà 52a) riconosce che determinati gesti segnalano il passaggio di proprietà. La consegna delle chiavi segna per esempio il passaggio di proprietà di una casa. Un gregge passa di proprietà quando la sua conduzione viene consegnata. Come si conduce un gregge? C'è chi dice che ciò che conta è il campanello che usa il pastore. Per Rabbì Jacov però un gregge si conduce con la capra che procede sempre davanti. C'è ossia un animale che guida il gruppo e la sua consegna equivale al passaggio di proprietà. 

Il Talmud coglie l'occasione per riportare un interessante insegnamento sul concetto di leadership a nome Di quel Galileo che insegnava (era portavoce) di Rav Chisdà. Questi dice che la controprova si ha dal fatto che quando il pastore è arrabbiato con il gregge, acceca questa capra. Rashì spiega che accecando la capra che guida il gregge, questa seguita da tutto il gregge cade in un pozzo. Per Rashì la parabola segnala il rapporto tra il Signore ed Israele suo gregge. Quando Iddio è adirato contro Israele, gli nomina dei leaders indegni che lo conducono alla cieca e lo fanno cadere nei pozzi di cui abbiamo parlato qualche giorno fa.

Il leader indegno - che riceviamo come punizione è dunque paragonato ad un cieco. E tutti noi siamo condannati a seguire un cieco verso la caduta.

Nella tradizione ebraica il leader è un inviato, un messo. Questi deriva la sua autorità dall'essere inviato del pubblico. Non gode di nessun privilegio di per se. Rav Yuval Sharlo shlita, appena qualche giorno fa ricordava ai membri della Kenesset che sono tenuti dalle regole della shlichut ad adempiere a quanto pattuito con gli elettori che li hanno nominati. 

In maniera molto interessante una delle frasi che si sente ripetere, almeno qui in Israele, per motivare il discostarsi dei leader dai loro impegni elettorali è che 'le cose che si vedono da qui non si vedono da lì'. Va di moda dire che il ruolo di responsabilità crea ex novo un senso della vista diverso da quello del pubblico. La realtà è che questa vista è purtroppo spesso cecità. 

Non è questo un discorso a favore di una parte politica o di un'altra. E' un richiamo al concetto di shlichut che troppo spesso viene dimenticato. 
I Profeti di Israele sono chiamati coloro che vedono. I vedenti. La vista non è assoluta. Chiunque abbia bisogno di occhiali sa bene qual'è la sensazione che si prova nell'inforcarli. Ciò che si vede assolutamente sfocato diventa limpido. Una lente migliore ci fa vedere ancora oltre. Una lente spirituale maggiore permette una vista ancora migliore. Adam HaRishon vedeva secondo il midrash da un capo all'altro del mondo. 

Questa contrapposizione tra la cecità del leader indegno e la vista perfetta del grande manigh è allora funzione del suo riconoscere il suo ruolo come semplice rappresentate del pubblico.

Nella doppia  Parashà di questa settimana, con la quale concludiamo l'Esodo, Moshè, colui che ha raggiunto la più profonda delle visioni - la visione del "retro del Signore" - da prova proprio di ciò.

"E non poté Moshè venire alla Tenda della Radunanza poiché risiedeva su di essa la nube, e la Gloria del Signore riempiva il Santuario". (Esodo XL, 35)

Ma come non poteva? Colui davanti al quale si è piegato l’Egitto, si è aperto il mare, è scesa la Manna! Colui che è salito sul Sinai ed è stato quaranta giorni e quaranta notti senza mangiare ne bere! Per tutto il libro di Shemot non abbiamo fatto che parlare di Moshè e delle sue prodezze! Ed ora che il Santuario è pronto!? ‘E non poté Moshè’!?.

La grandezza di Moshè spiega Rav Mordechai Elon shlita è quella di non montarsi mai la testa. Ha ricevuto l’ordine di costruire il Santuario e lo ha fatto. Il Santuario è pronto, e Moshè consegna la chiavi ad Israele. Torna in cuor suo ad essere un ebreo come gli altri. Perché dovrebbe entrare lui? Solo quando Moshè torna in cuor suo ad essere uno qualsiasi, nonostante tutto quanto fatto fino ad ora, ‘e completò Moshè l’opera’. 

martedì 17 marzo 2009

Quando vanno aperti i pozzi

All'inizio del trattato di Shekalim, il Talmud elenca le cose che vanno fatte nel mese di Adar. Nella seconda metà del mese, avvicinandosi a Pesach, il Tribunale ed i suoi preposti devono preoccuparsi di numerose necessità pubbliche. Tra queste c'è l'acqua: nella seconda metà di Adar non solo si riparano i mivkaot ma si rimuovono anche le chiusure dei pozzi che resteranno poi aperti fino alla fine dell'estate. 

La festa di Pesach, all'epoca in cui esisteva il Santuario presentava una logistica estremamente complessa vista la massiccia migrazione dell'intero popolo che veniva a Jerushalaim per presentare il korban Pesach. Il processo di purificazione sommato alle fisiologiche necessità di un così grande numero di persone rendeva il problema dell'acqua un problema nazionale. La pubblica amministrazione era allora preposta a farsi carico di soluzioni il cui genio ingegneristico è preservato ancora oggi in reperti archeologici incredibili. Si lavorava tutto l'anno per garantire abbastanza acqua per Pesach. Tale era l'importanza di queste attività che esse erano finanziate dai shajarè halishkà, da quanto avanzava dalla tassazione dei mezzi sicli dell'anno precedente. Dunque un'attività sacra. Alcuni nomi dei preposti sono sopravvissuti fino a noi. Un tale Shimon proveniente dal villaggio di Sachnin, in Galilea, esercitava a Jerushalaim e si riteneva, secondo il Midrash Kohelet Rabbà (IV,17), grande quanto Rabbì Jochannan ben Zakai.

Da qui capiamo che non si tratta solo di ingegneria idrica: queste opere avevano una profonda valenza spirituale. 

Il "ministro dell'acqua" per eccellenza è però nel Talmud, Nechunià lo scavatore dei pozzi. La sua storia compare in Bavà Kammà 50a - in un passo che si occupa dei danni causati da un pozzo - in Jevamot 121b - in un passo che si occupa delle possibilità di sopravvivenza di chi cade in un pozzo e nello stesso trattato di Shekalim 14a - nel passo che elenca le cariche di responsabilità nel Santuario. 

Nei tre passi talmudici in questione Nechunià è descritto come una persona rispettabilissima, un grande professionista, il cui lavoro giova alla collettività. Una persona dai grandi meriti. In Bavà Kammà si dice che i Saggi lodavano il fatto che egli stava attento ad adempiere alla regola che prevede che colui che scava un pozzo nella proprietà pubblica, lo consegni alla collettività stessa in modo da non essere più responsabile per eventuali danni che questo provochi.  Ma Nechunià è soprattutto famoso per due incidenti che riguardano i suoi figli.

La figlia di Nechunià cadde in uno dei grandi pozzi scavati dal padre. Quando fu avvisato Rabbì Channanià ben Dossà perché pregasse per la sua salvezza questi rassicurò che ella stava bene sia nella prima ora che nella seconda. Quando giunse la terza ora oltre la quale si ritiene non si possa resistere, egli annunciò che era uscita dal pozzo. E così fu. Quando chiesero alla figlia di Nechunià come aveva fatto a uscire, disse che era stata aiutata da un montone condotto da un vecchio. Quando chiesero a Rabbì Channanià ben Dossà come faceva a sapere cosa era accaduto - era forse un Profeta ? - questi rispose dicendo "Non sono un Profeta e non sono [nemmeno] figlio di un Profeta, ma ho detto: 'Nella cosa [per la quale] il giusto si affatica può cadere la sua discendenza? '

Il principio che ricorda  Rabbì Channanià ben Dossà è che quando una persona fa una mizvà in un determinato contesto, non viene punito in quell'ambito. Il suo merito protegge lui e la sua famiglia. Nechunià aveva così tanti meriti per i pozzi di cui si occupava che non era possibile la beffa della morte della figlia in un suo stesso pozzo. Anche se era stato deciso che la figlia dovesse morire. Infatti mentre per Rashì,  quello di Rabbì Channanià ben Dossà è un semplice ragionamento, per Rabbenu Jeshajà riportato dalla Shità Mekubezet,  Rabbì Channanià ben Dossà prega per la figlia di Nechunià ed il Signore accetta il suo ragionamento sulla base del principio che "il giusto decreta, ed il Santo Benedetto Egli Sia mantiene".

Quanto all'assistenza che ha ricevuto la figlia di Nechunià dal montone guidato dall'uomo anziano, questi è secondo Rashì, Avraham che conduce il montone sacrificato al posto di Izchak. Dunque il merito della legatura di Izchak. Ben Jeoiadà spiega che il merito di Avraham - l'uomo delle buone azioni verso il prossimo - si riflette nel comportamento di Nechunià per il prossimo - e salva la figlia. 

Potrebbe finire qui con il lieto fine, ma il Talmud non fa sconti a nessuno. 

La figlia di Nechunià si salva, ma il figlio di Nechunià muore di sete. 

Il Talmud cerca di capire cosa possa essere successo e spiega come spesso accade dinanzi all'incomprensibile, che Iddio è più rigoroso con i giusti. Proprio perché Nechunià era un giusto lo standard con il quale viene giudicato ed eventualmente punito è maggiore. In maniera molto interessante l'interprete degli eventi relativi a Nechunià è  Rabbì Channanià ben Dossà.  Rabbì Channanià ben Dossà ha lui stesso una storia difficile. Da una parte secondo i Saggi il mondo si regge sul suo merito, d'altro canto questi viveva in una povertà spaventosa. Il Talmud ricorda la dignità di lui e sua moglie che facevano finta di avere per non ricevre zedakà.  Rabbì Channanià ben Dossà e sua moglie sono l'esempio per eccellenza di coloro che riceveranno la ricompensa solo de esclusivamente nel mondo futuro. 

Questo a dire, che quando entriamo nel difficile campo del criterio in base al quale il Signore ricompensa, possiamo provare a tracciare delle linee generali nella consapevolezza che ci sono delle cose che non si possono capire.

E' questo dunque il momento dell'anno in cui si aprono i pozzi. Non si può arrivare a Pesach senza passare per l'apertura dei pozzi. Sono i pozzi dell'acqua che purifica, ma anche i pozzi della Torà , i pozzi dello spirito. Il nostro percorso spirituale ci deve far scendere in Egitto, ci deve far sentire schiavi prima di poter assaporare la continua liberazione con la quale il Signore ci redime dal Faraone che è in noi. 

Ma non si può scendere in Egitto senza parlare di quel pozzo nel quale abbiamo gettato nostro fratello Josef. E' da lì che parte la storia. La storia della figlia di Nechunià - che rischia di morire annegata - e di suo figlio che muore per la mancanza di acqua, ci riportano a quel pozzo senz'acqua nel quale viene gettato Josef e dal quale la storia di Pesach parte.

Se il pozzo di Josef è simbolo del disprezzo verso il prossimo i pozzi di Nechunià sono esattamente l'opposto, pozzi per beneficiare il prossimo.

I nostri Padri scavavano pozzi. Avraham ed Izchak, ma anche Jacov erano i Nechunià della loro generazione. Anche il loro figlio - Josef - cade nel loro stesso pozzo. Spinto dai loro stessi altri figli. E' forse proprio quel merito, quello di cui parlano Rashì e Ben Jeoiadà.

Il complesso discorso di Nechunià è che anche beneficiando il prossimo si deve fare attenzione a non danneggiarlo. E d'altro canto si hanno sì dei meriti per questo, ma non si può per ciò pensare che tutto sia deterministico. Come abbiamo visto per il ad delò yadà di Purim che ci deve introdurre a Pesach, questi pozzi anche ci devono far capire che non abbiamo capito. 

Una delle grandi doti di Nechunià era secondo il Talmud in Shekalim, quella di capire dalla tipologia delle pietre la temperatura dell'acqua. 

Una delle regole di Pesach è che l'acqua con la quale si impastano le mazzot deve riposare una notte - maim she lanu. Si vuole evitare, spiega Rashì che la temperatura più calda dell'acqua in questo periodo dell'anno, incida sul processo di lievitazione rendendo l'impasto chamez. 

A volte anche la migliore delle azioni può provocare dei danni. Anche una piccola variazione di temperatura può trasformare l'acqua da parte integrale della mazzà shmurà,  a parte integrale di chamez. Questo Nechunià lo sapeva bene. Sapeva anche che i suoi pozzi erano una gran cosa ma potevano anche essere pericolosi. 

Il pozzo di Josef è al contempo tentato omicidio e sorgente della redenzione dall'Egitto. Come capirci qualcosa? Solo il Signore può trasformare l'acqua dello stesso pozzo che era sangue per gli egiziani in acqua limpida per gli ebrei. 

Noi possiamo solo ricordarci che tra qualche sera sarà bene che una parte di ognuno di noi torni ad essere come un bambino che non sa ancora fare domande, alla quale noi stessi dobbiamo insegnare che 'questo è per quanto mi fece il Signore quando uscii dall'Egitto.'

domenica 15 marzo 2009

Basta e Avanza

Nella Parashà di Vajakel che leggeremo a D. piacendo questo Shabbat, la Torà ci narra della realizzazione del progetto del Santuario così come era stato esposto nelle precedenti Parashot. 

La dedizione del popolo è incredibile ed infatti ben presto i chachamim, quei saggi esperti nelle diverse arti che erano stati incaricati della realizzazione, comunicano a Moshè che quanto il popolo sta portando è ben più di quanto serve. Moshè ordina di interrompere le donazioni. La Torà aggiunge che quanto avevano portato era sufficiente ed avanzava. 

Lo Sfat Emet, il Rebbe di Gur, si chiede come mai la Torà si dilunghi così tanto su questo particolare apparentemente secondario. Spiega lo Sfat Emet che in questi versi si racchiude un importante lezione circa il mondo in cui ci si deve adoperare nel servizio Divino. 

Il metro in base al quale veniamo giudicati non è mai un metro quantitativo. Quello che conta è la genuinità del nostro operato. Che le nostre azioni siano 'leshem Shamaim' - per fini Celesti - assolutamente scollegate da ogni valutazione o elemento esterno alla mizvà stessa. Spiega allora lo Sfat Emet che il timore dei chachamim era che il popolo avesse ecceduto portando troppo relativamente al proprio livello - ossia che avesse superato la propria misura di leshem Shamaim e che l'eccedenza derivasse, anche, da sentimenti estranei alla mizvà.

Ma come facevano a saperlo i chachamim? Insegna il Rabbì di Gur che proprio per questo erano stati scelti. La loro capacità di interpretare la costruzione del Mishkan come proseguimento dell'opera della Creazione è la chiave per capire il loro ruolo. La loro saggezza era proprio nel comprendere il peso di ogni dettaglio del Santuario ed i suo posto nel grande progetto Divino. 

E' fisiologico, spiega lo Sfat Emet a nome del Baal Shem Tov, che nel completare una azione positiva l'uomo si insuperbisca. Per questo è necessario sempre fare un passo indietro ricordandosi 'dinanzi a chi tu sei'. Basta questo per fare il tikun - aggiustare - dell'azione stessa.

Era questo che volevano i Chachamim e Moshè. Questa marcia indietro, questo fermarsi e controllare se veramente il cento per cento di quello che sto facendo è leshem Shamaim  o se ho altre motivazioni è un passo fondamentale nel continuo processo di crescita spirituale.

L'Or HaChaim HaKadosh, commentando il fatto che le offerte erano sufficienti e avanzavano, termini curiosamente contraddittori, spiega che per ricompensa per la genuinità di queste, miracolosamente Iddio trovò per loro un impiego così che tutto potesse essere utilizzato.  Lo Sfat Emet concilia questa visione dicendo che è proprio l'operazione di 'retromarcia' che assicura che tutto quanto offerto fosse nella completezza spirituale, senza ingerenze esterne. 

Secondo il Midrash Iddio ha detto 'basta', alla creazione che si espandeva. Il Nome Shadai, viene appunto letto come descrittivo del fatto che l'Onnipotenza Divina è proprio nella (auto) limitazione della propria opera. Shadai - Sheamar dai - che ha detto: 'basta!'. Dunque quanto avviene per la costruzione del Santuario è speculare a quanto avvenuto per la creazione. E così possiamo capire anche il profondo legame con lo Shabbat che viene ricordato all'inizio della Parashà.

Il nonno dello Sfat Emet, il Chidushè HaRim, così interpreta il verso del Cantico dei Cantici (VII,2).

"Come sono belli i tuoi passi nei sandali, figlia di un generoso!"

Secondo il Talmud (TB Succà 49b) il generoso è Avraham che è così chiamato nei Salmi (47,10) mentre i passi nei sandali sono secondo Rashì i passi di Israele che si reca in pellegrinaggio a Gerusalemme in occasione delle tre feste in ottemperanza al precetto della Torà. 

Dice allora il Chidushè HaRim che la nedivut harazon, la genrosità della volontà, ha bisogno di un minal. Di una calzatura, ossia di una protezione ed una limitazione in modo che non si estenda oltre la giusta misura determinata dal genuino ottemperamento della Volontà Divina. 

[Abbiamo approfondito il rapporto tra questa limitazione della bontà ed Avraham nella derashà di Vajerà del 5763 http://digilander.libero.it/parasha/archivio%2063/6304.htm ]

Così anche conclude lo Sfat Emet, la Mishnà nel trattato di Shekalim ci dice che il primo di Adar si ricordano i precetti legati ai Sicli ma anche i Kilaim, le mescolanze proibite. Proprio nel momento dell'anno in cui veniamo chiamati a dare per il Santuario dobbiamo fare attenzione che nelle nostre intenzioni non si mescolino elementi estranei. 

Questi concetti sono allora particolarmente validi in questo periodo dell'anno in cui ci prepariamo alla grande festa di Pesach. Sono e saranno giornate intense nelle quali è molto importante ricordarsi e ricordare concetti come lo shalom bait , la calma e la pazienza. E' vero, per Pesach si va oltre ogni normale criterio di rigore. Questo va anche bene ma si deve fare attenzione a che ogni nostro rigore sia effettivamente leshem Shamaim. 

Come si fa a sapere? Come ha fatto Moshè e come ha fatto Iddio stesso. Ci si ferma, si fa un passo indietro ed un esame di coscienza. E' nei buchi e nelle crepe dell'anima in primo luogo che 'la sera del 14 [di Nissan] si cerca il chamez alla luce di una candela'. 

domenica 8 marzo 2009

Purim ed il toro del canaaneo

'Un toro di un ebreo che cozza contro il toro di un canaaneo, è esente [dal pagamento]. Un toro di un canaaneo che cozza contro il toro di un ebreo, sia che sia incensurato che recidivo, paga il danno intero' (Bavà Kammà 37b)

In questo periodo il ciclo del Daf HaYomì sta affrontando il trattato di Bavà Kammà, la prima delle tre parti del mega-trattato di Nezikin - il trattato dei danni.

La mishnà che abbiamo qui portato si occupa del danno che un toro di un ebreo fa nei confronti di un toro di un canaaneo e viceversa. La disparità nel trattamento mette immediatamente in crisi la coerenza di questo insegnamento con i versi-fonte sui quali si basa tutta l'impalcatura del trattato. I Maestri concludono quasi da subito che questo caso specifico esula dalla normale logica dei danni ed è una sanzione - una multa - con la quale Iddio ha punito le genti. 

Ma perché questa punizione?

  • Rabbì Abbau cita un verso del Profeta Habbakuk (III,6) e lo interpreta dicendo che i figli di Noach hanno preso su di loro l'impegno di osservare le sette leggi di Noach, ma hanno trasgredito questo impegno. Iddio li ha allora sanzionati con la regola in questione.
  • Rabbì Jochannan chiama invece in causa un verso della Torà (Deuteronomio XXXIII,2) per dire che le genti sono state sanzionate per non aver voluto accetare la Torà, che gli era stata offerta prima ancora che ad Israele.
Il verso di Rabbì Abbau viene però interpretato (anche) in altre due maniere:

  • Per Rav Matenà il verso intende che per non aver osservato le sette leggi, le genti vengono sanzionate con l'esilio e porta alcuni esempi di popoli che hanno perso la loro terra.
  • Rav Josef intende invece che visto che non hanno adempiuto al loro dovere, Iddio gli ha levato le sette leggi. Ossia non ne sono più vincolati.
Il Talmud affronta allora la delicata questione di come ciò sia possibile. Uno non adempie alla regola e la regola decade? Conviene non rispettare? La soluzione proposta è che anche se adempiono non ricevono più la loro ricompensa. Ma anche questo non può essere, perché sappiamo da un insegnamento di Rabbì Meir su Levitico XVIII,5 che un gentile che si occupa di Torà (ossia dei suoi precetti di Ben Noach per il Meiri) è paragonabile al Sommo Sacerdote.

Il Talmud risponde che sarà pure come il Sommo Sacerdote (avrà ricompensa) ma non puoi paragonare uno che è ordinato e fa ad uno che non è ordinato e fa. E' questo un importantissimo principio riportato a nome di Rabbì Chaninà per il quale è superiore colui che ha l'obbligo di una mizvà e la adempie a colui che la fa senza avere l'obbligo. 

In questo intreccio straordinario le fonti che supportano questa particolare sanzione nei confronti dei gentili toccano due punti fondamentali: l'accettazione della Torà e l'accettazione delle sette leggi. L'opinione di Rabbì Jochannan, per il quale la sanzione è legata al non aver accettato la Torà sopravvive al fuoco incrociato che in qualche modo ridimensiona invece l'opinione di Rabbì Abbau. La domanda è allora se i gentili non adempiendo alle loro mizovt abbiano 
  • perso la loro terra
  • perso le sette mizvot stesse (o almeno il rapporto di obbligatorietà con esse)
  • ricevuto la sanzione del toro del canaaneo che cozza contro il toro di un ebreo.
In questo interessante meccanismo, nel quale evidentemente non c'è una risposta univoca, i Saggi concordano sul fatto che la sanzione del toro del canaaneo è legata alla accettazione della Torà (o delle leggi dei noachidi). Questa discriminante tra Israele e le genti, l'aver accettato la Torà, viene tradotta allora in una curiosa discriminante, una multa.

Quando nel Talmud un argomento va capito fino in fondo i Maestri lasciano la teoria e passano alla pratica.

"Hanno insegnato i Maestri: E già è successo che il regno di Roma ha inviato due funzionari ai Saggi d'Israele [dicendo]: 'Insegnateci la vostra Torà'. Hanno letto, ripetuto e poi ancora una terza volta. Nel momento di accomiatarsi hanno detto loro: 'Abbiamo attentamente [studiato] la vostra Torà, ed è verità; tranne che questa cosa che voi dite che il toro di un ebreo che cozza contro il toro di un canaaneo è esente ed toro di un canaaneo che cozza contro il toro di un ebreo sia che sia incensurato che recidivo, paga il danno intero. Perché se si deve intendere 'del suo compagno', esattamente, allora anche se [il toro] del canaaneo che cozza contro quello dell'ebreo deve essere esente. E se si deve intendere 'del suo compagno', in senso lato, anche il [toro] dell'ebreo che cozza contro quello del canaaneo deve pagare. Ma questa cosa noi non la comunicheremo alle autorità...'"
Le Tosafot si chiedono come sia possibilie che i Saggi d'Israele avessero acconsentito ad insegnare Torà a due gentili, cosa proibita. Spiegano le Tosafot che da una parte c'era paura di ritorsioni (erano pur sempre ambasciatori ufficiali di Roma) ed al contempo questi si erano presentati con la dichiarata volontà di convertirsi, caso in cui si deve insegnare. 

Lo Jerushalmi in loco dà ancora maggior colore agli eventi, dicendo che i romani si presentarono da Rabban Gamliel il quale si diede anche da fare per limitare  altre incongruenze che trovarono - ma non la questione del toro. Nella versione dello Jerushalmi i due romani dimenticano tutto non appena usciti dal confine con il libano nei pressi di Tiro. Un forte richiamo alla distinzione tra Erez Israel e gli altri luoghi.

Nel racconto che ci porta la Ghmarà, troviamo allora gli stessi ingredienti della discussione precedente. I due romani si vogliono convertire veramente? Sono pronti davvero ad accettare la Torà? Alla fine evidentemente no. Forse la cosa straordinaria è proprio questa. Un convertito che accetta tutta la Torà, tranne la più piccola delle sanzioni rabbiniche non viene convertito. Israele ha invece detto 'faremo ed ascolteremo.'

La sanzione del toro del canaaneo diventa allora il simbolo del fatto che non c'è accettazione parziale della Torà. Che esiste una profonda differenza tra colui che è comandato e colui che non lo è. E che quella che apparentemente è una regola discriminatoria nasconde in realtà un mondo intero.

Purim è anche la festa della accettazione volontaria della Torà.

E' il momento in cui decade la tesi della minaccia sotto la quale abbiamo accettato la Torà sul Sinai ed Israele accetta volontariamente tutta la Torà - comprese le decisioni rabbiniche. 

E' forse più di ogni altra occasione il momento in cui vale la pena riflettere sulla responsabilità che questa accettazione comporta e sulla netta distinzione che crea tra coloro che sono comandati e coloro che non lo sono. 


mercoledì 4 marzo 2009

La solitudine del Manigh

"Giacchè Mordechai il Giudeo, era viceré del re Achashverosh, e grande per i Giudei, e ben voluto dalla maggior parte dei suoi fratelli, ricercava il bene del suo popolo e parlava di pace a tutta la sua discendenza."

Con questo verso si conclude la Meghillat Ester. Nella Derashà alla Parashà di Terumà del 5764 (http://www.archivio-torah.it/feste/purim/teruma_purim.htm) abbiamo approfondito il commento di Rav Mordechai Elon shlita, circa ciò che manca in questo verso. Cerchiamo di vedere invece oggi ciò che nel verso c'è.

In maniera molto interessante la Meghillà si conclude con la triste constatazione del fatto che pur dopo l'incredibile successo della sua iniziativa, Mordechai era benvoluto solo dalla maggior parte dei suoi fratelli.

Il Talmud nel trattato di Meghillà dice che ciò si riferisce ai suoi fratelli nel Sinedrio. Mordechai aveva troppo da fare con la politica e pur rimandendo capo del Sinedrio, alcuni dei membri smisero di studiare con lui per trovarsi (forse) qualcuno con più tempo.

Se ci soffermiamo sul pshat, il senso semplice del verso però, non possiamo non rimanere sorpresi da questa carenza di gradimento per un leader che ha saputo gestire uno dei momenti più duri della storia d'Israele.  A ben vedere però questo non ci deve sorprendere. 

E' purtroppo una caratteristica costante dei leader di Israele, quella di essere criticati ed a volte importunati, dal popolo. Giganti come Moshè sono stati ingiustamente accusati di adulterio! David, Messia del Signore e prototipo del re giusto, subisce rivolte continue anche dentro la sua stessa casa. I profeti d'Israele vengono derisi e cacciati. Tanta è la solitudine del profeta che Eliau asserisce di essere rimasto da solo al servizio del Signore. Eliau pagherà per questa sua affermazione, e va bene, ma cerchiamo di capire che cosa ha dovuto subire per arrivare a soffrire un tale livello di solitudine!

Ma perché tanta solitudine nel ruolo del manigh ? 

Nella lotta contro Amalek - contro il male - serve tanta forza. Forza fisica, ma soprattuto forza di volontà. La meghillà narra che solo Mordechai non si chinava ad Aman. E tutti gli altri? Forse non erano abbastanza forti. Amalek è colui che attacca in primis i deboli - hanecheshalim acharecha.  Moshè nel corso della guerra contro Amalek diventa l'emblema della resistenza con le sue mani verso l'alto. E quando Moshè non ce la fa, sono Aron e Chur che lo aiutano in questa prova di volontà. Anche Jeoshua, che la guerra la combatte è definito proprio per la sua costanza 'lo yamush mitoch haOel', non lasciava mai la tenda. Il Midrash dice che Jeoshua era colui che rimaneva a sistemare i banchi del Bet Hamidrash. 

Il manigh è anche colui che rimane a riordinare il Bet Hamidrash, perché la sua forza non è arrogante ma si fonda invece su quel carico di responsabilità che alcuni sentono ed alcuni meno.

Un manigh deve avere costanza. Forza fisica e morale. Deve saper andare contro corrente quando serve. Nella aftarà che abbiamo letto ieri, Shaul manca di questa forza di volontà. Si piega al volere del popolo non capendo che l'adempimento all'espressa Volontà Divina non è un argomento da mettere ai voti. Mi ha sempre affascinato la frase con cui Shemuel apre il proprio rimprovero:

'Anche se tu sei piccolo ai tuoi stessi occhi, tu sei il capo delle tribù d'Israele...'

Shaul non capisce che in quanto capo delle tribù d'Israele è lui che deve guidare il popolo e non farsi guidare. E' allora Shemuel, uomo del Signore, che prende la spada e fa a pezzi Agag re di Amalek dando a Shaul il guerriero una lezione o due sul significato di forza.

Avere la forza del manigh significa avere la forza di fare cose impopolari, quando giuste. Di saper guardare ai decenni a venire e non al rating dei prossimi cinque minuti.

Tanti, troppi, questa forza non ce l'hanno. 

E' vero, la maggioranza appogiava ancora Mordechai, ma quella minoranza che non lo voleva, che direbbe oggi? Mordechai, Ester e la loro lettera, che noi chiamiamo Meghillà, vivono da migliaia di anni. Il cinismo dei critici è sepolto invece dalla storia assieme alle cronache dei re di Media e Persia.


 

domenica 1 marzo 2009

Un digiuno in memoria di un digiuno

Il giorno di Purim, il quattordici del mese di Adar, è in realtà il giorno successivo agli eventi narrati dalla Meghillà. E' il giorno che segue la battaglia, in cui 'si riposarono' - venoach bearbà asar bo. Così anche il giorno di Purim Shushan, il quindici, è il giorno in cui si riposarono a Susa, dove gli scontri continuarono anche il quattordici.

Il giorno stesso degli eventi, il tredici, è giornata dedicata al digiuno. Il digiuno di Ester. Questo digiuno è molto strano. Se mettiamo da parte il digiuno del Kippur che è stabilito dalla Torà, esistono nel calendario ebraico cinque digiuni di istituzione rabbinica. Quattro hanno a che fare con la distruzione del Tempio: il nove di Av, il digiuno di Ghedalià, quello del 17 di Tamuz ed il 10 di Tevet. Sono questi digiuni nei quali ci affliggiamo ancora oggi per la tragedia dell'esilio nel quale siamo ancora intrappolati. Digiuniamo per degli eventi negativi ancora presenti nella nostra vita.

Il digiuno di Ester non ha niente a che vedere con tutto ciò. La sua definizione halachica è taanit zecher letaanit. Un digiuno in memoria di un digiuno. Ossia un digiuno per ricordare. Per ripercorrere gli eventi ed in particolare l'impatto importantissimo della preghiera e del digiuno nel processo di redenzione.

Il digiuno di Ester è allora una parte integrante del processo che ogni anno noi affrontiamo a Purim, un processo di introspezione che ci porta nel Santo dei Santi della nostra anima specularmente a quanto avviene nei giorni di Rosh Hashanà e Kippur. E bisogna proprio pensare al Kippur - Kippurim -KePurim, al giorno che è come Purim, come abbiamo molte volte visto, per capire ciò.

Ester entra da Assuero a digiuno proprio come il Sommo Sacerdote entra nel Santissimo a digiuno.

Secondo Rabbenu Tam però il digiuno che ricordiamo non è quello dei tre giorni di Ester (che in realtà avvenne a Pesach) ma piuttosto il digiuno che fecero nel giorno della battaglia, così come fecero gli ebrei all'epoca di Moshè nella guerra contro Amalek - di cui si parlerà proprio il prossimo Shabbat.

L'idea è proprio quella che il digiuno accompagna sempre i momenti critici, anche quando il Testo non lo dice espressamente.

E' allora importante prima di dedicarci alla gioia e l'allegria di Purim fermarci in digiuno e contrizione per far sì che la nostra gioia sia poi esclusivamente gioia di mizvà.




Ricordarsi di non sapere



Il prossimo Shabbat, lo Shabbat che introduce la festa di Purim è dedicato al ricordo di ciò che ci fece Amalek, progenitore di Aman e di ogni persecutore d'Israele.

I Saggi hanno legato a questo Shabbat il precetto positivo della Torà di ricordare ciò che ci fece Amalek. Dunque possiamo dire che la festa di Purim inizia con l'obbligo della memoria. 

La memoria è un requisito imprescindibile per capire la grandezza e la portata degli eventi di cui siamo, a volte nostro malgrado, protagonisti. Per ricordare bisogna sapere. Ed ecco allora che i nostri Maestri si sono cimentati in parafrasi in rima della Meghillà, che già da questo Shabbat cercano di farci entrare nei dettagli del racconto, nelle diverse composizioni poetiche in uso nei diversi riti.  

In maniera curiosa, la  conclusione della festa, che è anche il suo apice, è invece caratterizzata dalla dimensione del non sapere. Insegnano infatti i Maestri che la misura nella quale si deve bere vino nel corso del banchetto di Purim deve essere tale da non saper distinguere tra 'benedetto Mordechai e maledetto Aman'.

Come mai questo passaggio, quasi forzato, dalla memoria che si basa sulla precisa conoscenza, alla 'confusione' del non sapere?

La memoria, ci vogliono insegnare i Mestri, è un pilastro della tradizione ebraica, ma come ogni cosa si può rischiare di abusarne. La vera lezione che la Torà ci vuole insegnare, e nella quale la memoria è importante strumento, è quella dell'assoluto dominio del Signore.

"...non 'c'è altro al di fuori di Lui..."

Arrivare a non sapere, significa raggiungere un profondo livello di consapevolezza nel quale l'unica vera realtà è l'unicità di D. Tutto il resto, compreso quanto noi capiamo del mondo e della storia e per certi versi della Torà stessa, è tutto relativo.

Nel vino della Seudat Purim si nasconde il segreto della funzionalità della memoria. La memoria serve per portarci a temere e servire il Signore non per trasformarla in un bel museo e piangersi addosso. 

La gioia pura e semplice della Seudat Purim la si raggiunge nel momento in cui annulliamo tutto, anche il nostro intelletto, alla mizvà. E' in quello stesso momento della Seudà, trenta giorni prima di Pesach, che si diveniamo tutti figli che non sanno (ancora) fare domande ed iniziamo a studiare le regole di Pesach così come Moshè ha stabilito per Israele.