Pagine

giovedì 8 ottobre 2009

Sheminì Azzeret 5770

Con la festa di Sheminì Azzeret, completeremo a D. piacendo questo Shabbat il ciclo delle feste del mese di Tishrì che abbiamo iniziato cinquantadue giorni prima con Rosh Chodesh Elul. Abbiamo più volte ricordato come la caratteristica di questa giornata sia proprio l'assenza di ogni cenno storico o mizvà particolare. Al culmine del processo spirituale che abbiamo fatto in queste settimane giungiamo ad un livello nel quale non c'è bisogno di nessun motivo per cercare la gioia della vicinanza al Signore. Abbiamo anche più volte ricordato che è proprio questo momento di apparente "vuoto" che Israel decide di riempire festeggiando il completamento del ciclo annuale dello studio della Torà.

C'è però un altro aspetto che caratterizza la liturgia di questa giornata: il tikun hagheshem. Dal Musaf di Sheminì Azzeret infatti iniziamo a ricordare nelle preghiere che è il Signore che manda la pioggia. Entriamo dunque nel periodo invernale. La pioggia è fondamentale per la vita del mondo vegetale ed è indispensabile per lo sviluppo dell'agricoltura. La pioggia diviene quindi il simbolo stesso del sostentamento: in ebraico la radice gheshem forma anche la parolagashminut, materialità. La pioggia è il fondamento della materialità.

Questo è in effetti anche il momento in cui torniamo alla materialità. Dopo quasi due mesi di percorso stiamo per tornare al quotidiano con i suoi problemi e le sue necessità. La festa di Sheminì Azzeret e la corrispettiva gioia della Torà, la Simchat Torà, sono allora il trampolino per affrontare in maniera corretta il periodo invernale. Il primo punto è chiaro: la pioggia, la materialità, viene anch'essa dal Signore. L'ebraismo rifugge la dicotomia tra materia e spirito: il compito di Israele è proprio quello di mettere assieme materia e spirito al servizio del Signore.

Sebbene tutta la festa di Succot sia centrata sul concetto dell'acqua - basti pensare che durante Succot veniva offerta dell'acqua sull'Altare per propiziare le piogge - è solo con la fine di Succot che iniziamo a ricordare la pioggia nelle preghiere. Di Succot infatti la pioggia ci impedirebbe di adempiere alla mizvà della Succà. Ma anche dopo Succot ci limitiamo per il momento a ricordare la pioggia, non a chiederla. Infatti attenderemo altri quindici giorni per esser certi che l'ultimo dei pellegrini giunti a Jerushalaim sia tornato a casa propria in Babilonia, per evitare quindi che le piogge complicassero il percorso dei pellegrini. La pioggia infatti, seppur benefica, è un bel problema per chi si trova fuori di casa, in viaggio. Il Talmud, nel trattato di Bavà Mezià (101b) ricorda che nel periodo invernale è estremamente difficile trovare una casa da affittare. Tutti vogliono un riparo e si preoccupano per tempo. Per questo motivo non si può sfrattare un inquilino da Succot fino a Pesach. Perché non troverebbe un altra casa da affittare. Il periodo invernale diviene allora anche una sorta di zona protetta. Fuori piove, si deve provvedere ad una protezione. In questa visione, dopo aver esplorato il concetto della precarietà con delle succot nelle quali deve filtrare acqua se piove, veniamo ora chiamati a preoccuparci di restare all'asciutto. Veniamo chiamati a crearci delle tevot Noach, delle Arche di Noè spirtuali nelle quali difenderci nei mesi invernali.

Questo rapporto tra la pioggia e la casa è anche la chiave della breve preghiera che il Sommo Sacerdote recitava nel Santissimo nel giorno di Kippur. Esistono diverse tradizioni basate sul Bavlì, lo Jerushalmi ed altre fonti (e così anche diverse rappresentazioni nei diversi riti nei rispettivi Seder Avodà) ma in ogni modo nel momento più importante dell'anno, nel luogo più importante sulla terra, la persona più importante d'Israele chiedeva:

· che se l'anno sarà caldo, sia anche piovoso.

· che non si allontani il potere dalla Casa di Jeudà

· che ognuno abbia alimenti in abbondanza

· che non venga accolta la preghiera dei viandanti che chiedono che non piova.

Poi faceva anche una preghiera specifica per gli abitanti della pianura dello Sharon: che le loro case non diventino le loro tombe.

Il Rambam nel suo commento alla Mishnà spiega che il Coen Hagadol faceva prima delle richieste generali: un clima mite che giovi a tutti ed un buon governo e poi passava alle necessità dell'individuo, il sostentamento e la pioggia. Perché la casa prosperi, ci vuole la pioggia. Chi è fuori casa, prega perché non ci sia pioggia e non deve essere ascoltato. Al contempo gli altri devo evitare di chiedere la pioggia, fintanto che questi non arriva a casa.

Ma forse la preghiera più curiosa ed affascinante è quella sugli abitanti dello Sharon. La pianura dello Sharon era frequentemente soggetta ad inondazioni e le case di fango spesso si trasformavano in trappole mortali. Dinanzi alla recenti disgrazie naturali in tutto il mondo ed anche in Italia possiamo forse apprezzare meglio la preghiera del Sommo Sacerdote. Ci sono però anche delle letture più profonde. La pioggia è indispensabile, la materialità è fondamentale ma può essere anche pericolosa. In alcuni casi rende difficile il viaggio del pellegrino trasformando le strade in pantani, ma in casi limite porta calamità e distruzione. All'epoca del Secondo Tempio esisteva anche una fondamentale differenza demografica tra le diverse zone di Erez Israel. La zona attorno a Jerushalaim era popolata da Chaverim, da persone osservanti che erano attente alle regole della purità. Oltre Modiin, si supponeva che le persone fossero ammè haaretz, ignoranti. Lo Sharon, in questa visione, sarebbe simbolico per coloro meno attenti alle mizvot. Il rischio è che la materialità a cui questi sono più legati diventi un boomerang e che le loro case diventino spiritualmente delle tombe.

La materia che è strumento di mizvà, può facilmente diventare inciampo nel percorso o addirittura crollarci addosso. Sta a noi fare della strada un percorso di Torà nel quale procedere secondo il giusto passo, la giusta Halachà. Sta a noi fare delle nostre case dei ripari pieni di Torà e di opere di bene impermeabili a quanto di negativo avviene fuori.

Vorrei allora provare ad azzardare una lettura allegorica della nostra Mishnà.

La stessa Mishnà di Bavà Mezià ci insegna che esistono dei cicli che vanno oltre le stagioni: i negozi vengono infatti affittati per dodici mesi. Il motivo è secondo Rashì in loco il fatto che il commerciante ha un giro: delle uscite che rientreranno con il tempo. In ebraico hachenvanì mekif hakafot. Il negoziante fa delle hakafot. È per rispetto all'esigenza del ciclo economico del negoziante che questi ha dodici mesi. Altrimenti non potrebbe compiere il suo ciclo.

In questi giorni di hakafot nei quali prima compiamo i giri attorno alla tevà con il lulav e poi con la Torà stessa a Simchà Torà è curioso trovare questo stesso termine. Ebbene la hakafà è quindi anche un ciclo, un processo e non solo un giro fisico attorno ad un oggetto. Ed allora se il ciclo commerciale è di dodici mesi anche il ciclo della professione per eccellenza del popolo d'Israele, lo studio della Torà, è di dodici mesi. Nella preghiera che si recita per lo studio di un trattato Talmudico si chiede infatti che la Torà sia la nostra professione. Non si tratta qui di scartare il lavoro vero: più volte abbiamo fortemente ripudiato l'idea di alcuni che oggi si fanno scudo della Torà per non lavorare! Piuttosto i Saggi intendono che lo studio andrebbe affrontato con la stessa serietà con cui si affrontano i propri affari: una professione.

D'altro canto si deve sapere che lo studio è un processo. Come per l'economia di una attività esistono diverse stagioni: momenti di investimento e momenti di raccolta e via dicendo. Ci sono momenti per rafforzarsi quantitativamente e momenti per privilegiare la qualità.

La nostra Mishnà si conclude curiosamente con l'opinione di Rabban Shimon ben Gamliel secondo il quale i forni del pane e le tintorie sono delle eccezioni e hanno diritto a tre anni di preavviso prima dello sfratto. Il motivo secondo la Ghemarà è che hekefan merubè. Hanno un giro grande. Rashì spiega che queste attività hanno un ciclo del denaro più lungo. Il Meiri spiega invece che sono queste delle attività difficilmente trasportabili perché necessitano di spazio per i forni e sorgenti d'acqua per le macine. L'hekef merubè sarebbe la difficoltà di trasporto.

È curioso che anche per la Torà esiste un ciclo di tre anni. Il ciclo di dodici mesi che noi utilizziamo era originariamente usato dalle Comunità babilonesi. In Erez Israel (e secondo alcuni così si faceva in epoca antichissima anche a Roma) si completava il ciclo della lettura della Torà in tre anni. Anche se quest'uso è ormai scomparso, l'idea è che anche se noi siamo generalmente portati a pensare che tutto vada di anno in anno, in realtà esistono anche dei cicli più lunghi. Hekefan merubè. Ci sono dei percorsi nello studio della Torà più lunghi del "nostro" ciclo annuale. Pensiamo al Daf Yomì, al ciclo con il quale si studia il Talmud intero in sette anni. Pensiamo a quanto dicono i Maestri che ci sono cose il cui senso profondo lo si capisce solo dopo quaranta anni di studio. Questo ci deve portare a capire l'importanza delle nostre azioni e del nostro studio. Ciò che noi pianteremo in questo inverno, avrà ripercussioni non solo nelle prossime stagioni e nemmeno solo in quest'anno. L'eco di una mizvà è infinito.

Nel preparaci alle hakafot pensiamo allora che ci sono delle hakafot ben più lunghi delle nostre e che se noi facciamo un piccolo percorso nei nostri Batè Keneset è perchè c'è un percorso più lungo che lega tutta la storia d'Israele, tutta l'esperienza ebraica, fino a quando presto e ai nostri giorni torneremo a fare la più grande delle hakafot attorno a tutti i nuovi quartieri di Jerushalaim per Santificare tutta la Città attorno al Santuario ricostruito.

Shabbat Shalom e Moadim leSimchà.

giovedì 1 ottobre 2009

Succot 5770

Il Talmud, nel trattato di Bavà Mezià (97a), discute del risarcimento per un oggetto preso in prestito o in affitto, che viene perso. Uno dei principi generali è che non c’è risarcimento qualora il padrone dell’oggetto sia presente (almeno parzialmente). Dall’esegesi del verso fonte (Esodo XXII,14), la Mishnà ricava che se il legittimo proprietario sta lavorando per chi ha preso l’oggetto, questi è sempre considerato come se fosse presente e quindi non c’è risarcimento.

La Ghemarà estende il principio a tutte quelle professioni che all’epoca del Talmud non erano pagate direttamente ma ricevevano uno stipendio dalla cassa comunitaria tra cui il Maestro dei bambini, l’agronomo, lo shochet, chi praticava i salassi ed il barbiere. Come vanno considerati? Secondo Rashì (e così anche Rambam e Ritva) nel momento in cui stanno servendo un cliente, vengono considerati come lavoratori presso di lui, per cui se questi prende da loro in prestito un oggetto in quel momento, è considerato “alla presenza del padrone” e non c’è risarcimento. Secondo molti altri Rishonim invece, questi sono sempre considerati al servizio di tutti e quindi non c’è mai risarcimento.

La domanda è allora che succede nel caso di un Maestro che non riceve alcun compenso.

È su questa domanda che si scatena un interessante (ed interessata) diatriba tra Rava ed i suoi discepoli, i Saggi della Yeshivà. I discepoli sostengono che il Maestro “lavora” per gli studenti e che quindi se questi prendono un oggetto in prestito sono esenti da eventuale risarcimento. Rava stizzito (e forse preoccupato che questi si volessero approfittare della sua ricchezza) risponde che è vero il contrario: sono gli studenti che “lavorano” presso il Maestro e questo per via del fatto che è il Maestro che sceglie il tema della lezione e può passare da un argomento all’altro o da un trattato all’altro a sua completa discrezione. Da qui quindi è Rava ad essere eventualmente esente dal pagare un risarcimento.

La Ghemarà, come spesso accade, da ragione ad entrambi: in senso generale Rava ha ragione, è il Maestro ad avere l’autorità. Questo però non è vero per il “Yomà DeCallà” (o come li chiamiamo noi Yarchè Callà), quelle lezioni che precedono ed accompagnano le feste. In occasione delle feste il Maestro non può scegliere il tema: è obbligato, da una regola istituita da Moshè nostro Maestro, ad insegnare le regole della festa in questione. In questo caso egli ‘lavora’ per gli studenti.

È chiaro che qui non si sta parlando solo di un eventuale risarcimento. Ad un livello più profondo la discussione tra Rava ed i suoi alunni è sulla natura del rapporto stesso tra Maestro ed alunno. Secondo la Ghemarà la discriminante è la facoltà di poter scegliere il tema della lezione.

L’autorità del Maestro deriva dunque dal suo diritto (ma anche dal suo dovere) di scegliere il percorso didattico che ritiene opportuno. C’è però un momento nel quale è la Torà stessa che sceglie per tutti, anche per il Maestro, il percorso didattico: il percorso delle feste. In questo momento sembrerebbe che l’autorità del Maestro venga meno (con tutte le conseguenze halachiche di cui sopra).

A mia modesta opinione sembra assolutamente affascinante che proprio in questo preciso momento compare un obbligo che ridefinisce il rapporto Maestro-Alunno. Insegna infatti Rabbì Izchak nel trattato di Rosh Hashanà (16b) che ognuno è tenuto a far visita al proprio Maestro durante le feste. Questo si impara dal fatto che il marito della donna Shunnamita (Re II,23) si stupisce del fatto che la moglie vada a trovare il profeta Eliseo pur essendo il giorno feriale: sarebbe stata quindi cosa normale di festa.

Nel momento stesso in cui l’autorità del Maestro è minata perché lui non può scegliere, noi dobbiamo andare da lui. Ossia nel momento in cui noi siamo statutoriamente ‘padroni’ dei nostri Maestri dobbiamo mostrare loro rispetto. Dobbiamo cercarli. Le feste sono anche momenti nei quali i Maestri sono oberati dalle esigenze delle loro Comunità. Sono forse proprio quei momenti in cui il pubblico si sente padrone e si aspetta un servizio (...a che ora suona lo Shofar?) È in questi momenti che abbiamo l’obbligo di andare dal Maestro, a risanare questo rapporto, ad ascoltare ciò che il Maestro è obbligato a dirci ed a ricordare che negli altri giorni è lui che sceglie.

E se è vero che nelle feste noi dobbiamo andare dal Maestro è altrettanto vero che dobbiamo fare posto al Maestro in casa nostra per il resto dell’anno. ‘Sia la tua casa un ritrovo per i Chachamim’ dice la Mishnà nel trattato di Avot.

È questo che avviene anche con la Shunnamita nel brano che noi leggiamo come Aftarà per la parashà di Vajerà. Prima ancora che lei andasse da Eliseo, aveva preso l’iniziativa di preparare una stanza per ospitare il profeta che visitava frequentemente Shunnem. E questo è anche il tema della relativa parashà di Vajerà che si apre con Avraham e la sua ospitalità agli gli angeli, ma anche della visita che Iddio stesso fa ad Avraham malato. Avraham sa accogliere, ma sa anche correre incontro.

Andare a trovare e ricevere, andare a vedere ed essere visti è una delle principali chiavi di lettura per il precetto del pellegrinaggio delle Tre Feste. Si va a vedere il Santuario e si viene visti dalla Presenza Divina.

Mi sembra che questi concetti trovino una particolare dimensione nella festa di Succot che è centrata sul concetto dell’incontro, del far visita e ricevere ospiti. In effetti la Succà si trova proprio nel crocevia di questo processo. Noi usciamo dalle nostre case andando incontro alla mizvà ed apriamo le nostre Succot al prossimo. Succot è il momento in cui riceviamo la visita dei Sette Ushpizin, i Sette ospiti, primo tra i quali Avraham che riceviamo proprio la sera in cui è mizvà mangiare in Succà. In questo equilibrio tra il dentro e fuori, tra andare a trovare e ricevere, la Succà diviene uno spazio sacro che risana il nostro rapporto con il prossimo, a cominciare dal Maestro, ma anche il nostro rapporto con la materialità.

La mizvà della Succà è definita come una mizvà che non ha ‘chesron kis’, con la quale non si perde niente, perché bastano pochi rami per farla. Al contempo si deve stare attenti a non costruirla con materiale rubato e così anche il lulav rubato non è valido. Il tema del danno al prossimo con cui abbiamo aperto.

Mi sembra che è proprio in questa chiave che dovremmo leggere i famosi tre punti che sottolineava Hillel Hazaken nel corso delle celebrazioni di Succot, la simchat Bet Hasoevà, nel Santuario.

· Se Io sono qui, tutto è qui.

· Nel Luogo che io amo, lì i miei piedi mi portano.

· Se tu verrai a Casa mia, Io verro a casa tua. Se tu non verrai a Casa mia, Io non verrò a casa tua.

Esistono varie letture per questa serie di insegnamenti secondo alcuni è D. che parla, secondo altri l’uomo stesso. In ogni modo la prima frase implica la consapevolezza di se, del proprio ruolo e del proprio luogo. La seconda che il vero amore si dimostra con lo spostarsi dalla propria posizione per andare nel luogo che si ama. La terza che esiste un principio di reciprocità.

Ed allora ciò è vero sia che il soggetto sia l’uomo, che Iddio benedetto.

Succot viene ad insegnarci che se vogliamo un rapporto dobbiamo trovare dei luoghi e dei tempi di incontro. Che se vogliamo un Maestro non possiamo solo andarlo a trovare una volta l’anno quando ci è facile presentarci al Tempio per pochi minuti, ma dobbiamo fare spazio nel nostro quotidiano, nelle nostre case per il suo insegnamento.

E che se vogliamo un rapporto con il Signore questo non si può basare solo su quello che noi ci aspettiamo da Lui quanto piuttosto da quello che Lui si aspetta da noi.

Shabbat Shalom e Moadim LeSimchà