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giovedì 23 dicembre 2010

I Nomi delle Stelle


Parashat Shemot 5771


E questi sono i nomi dei figli di Israele che arrivano in Egitto con Jacov, ognuno venne con la sua casa.” (Esodo I,1)

Il libro di Shemot che iniziamo a D. piacendo questa settimana, si apre con un’apparente ripetizione: l’elenco dei nomi dei figli di Jacov, le tribù d’Israele quindi, che scesero in Egitto. Il fatto che questi nomi non siano un dettaglio lo capiamo, banalmente, dal fatto che la Parashà e tutto il libro dell’esodo prendono appunto il nome... dai nomi. Shemot.

Ciò non toglie che la domanda sia pertinente: come mai la Torà, altrimenti così parsimoniosa nell’uso delle parole, sceglie di ripetere i nomi dei figli d’Israele? Questa è anche la prima domanda che Rashì si pone sul libro di Shemot.

La risposta di Rashì, che questi prende dal Midrash, è tutt’altro che semplice: “...per rendere noto il loro gradimento, che sono stati paragonati alle stelle che vengono fatte uscire e rientrare secondo il loro numero e secondo i loro nomi come è detto (Isaia XL, 26) Che fa uscire secondo il loro numero le schiere, chiamando tutti per nome.

I nomi vengono ripetuti per rendere noto il loro gradimento. Ma che vuol dire? Perché sono simpatici al Signore? E perché le stelle?

Lo Sfat Emet propone una serie di ragionamenti sul commento di Rashì.
I nostri Maestri hanno insegnato che gli angeli, messi del Signore, prendono nome dalla loro missione. Il nome descrive la loro missione: gli viene assegnato assieme ad essa, e con essa finisce. Anche il creato ed in particolare gli astri vengono chiamati ‘Schiere del Cielo’ ed assieme agli angeli rappresentano il mondo spirituale. Il Midrash ci sta allora dicendo che lo stesso vale, con qualche distinguo,  per i figli d’Israele.

Ed a chi viene reso noto il loro gradimento? Certamente ai figli dIsraele stessi. Che sappia ognuno che è parte delle Schiere Divine. E come le stelle illuminano la notte così sono stati mandati i figli dIsraele in Egitto per trovarvi illuminazione anche lì (Sfat Emet 5632) 

Quello che il Midrash ci vuole dire è che quantunque saremmo portati a vedere la schiavitù egiziana come un evento totalmente negativo, dobbiamo ricordare che vi siamo entrati con i nostri nomi. Ossia che quello era ed è il nostro ruolo. Illuminare il buio. Illuminare quel Mizraim, che è simbolo di ogni tzar, ogni ristrettezza. Anche oggi. Per questo il termine è al presente, che arrivano, perché in ogni momento i Nomi giungono con noi in ogni piega della storia. Per questo, spiega il Rabbi di Gur, Rashì tiene a sottolineare che è stata una dimostrazione di gradimento. Di chibbà. Non è una punizione. È paradossalmente la dimostrazione dell’amore Divino che ci chiama ad un compito che può anche essere difficile o sgradevole ma è pur sempre ciò per cui siamo stati creati. Illuminare il buio. Rivelare il dominio di D..

Lo Sfat Emet dice appunto che il termine galut, esilio, ha la stessa radice di ghilui, rivelazione. Lo scopo dell’esilio è che Israele riveli al mondo il Shem Kevod Malkuto, il Nome Glorioso del Suo Regno. La redenzione è infatti in primo luogo la rivelazione del Nome di D.. Questo avviene attraverso la comprensione che tutto è volere del Signore, anche l’esilio. L’esilio, il momento in cui potremmo essere portati a pensare all’abbandono da parte di D., raggiunge il suo scopo quando noi sappiamo spiegare al mondo che anche questo è volere di D.. La nostra spiegazione dell’esilio è la spiegazione del nostro nome, del nostro ruolo, ma anche la spiegazione, per quanto possibile del Nome di D.. 

Perché il nome è il ricordo e lallusione al corpo di colui che è chiamato. E così anche il Suo Nome Benedetto è ciò che è percepibile in questo mondo attraverso i suoi prodigi ed attraverso i figli dIsraele che rendono unico il Suo Nome [nel senso che] rendono percepibile la gloria del Suo Regno in questo mondo e questa è la dimensione del Suo Nome Benedetto. Poiché tutte queste prodezze come luscita dallEgitto e simili, sono lontane dal [lessere descrittivi de] la Sua Essenza Benedetta, e per questo è chiamato con il termine Shem, il Nome.

Ossia, anche il nome di D., che noi non pronunciamo neppure tanta è la sua sacralità, è solo la suprema e rivelata descrizione in termini umanamente percepibili della Sua Gloria. In vero il Signore non è neppure descrivibile dal Suo Nome. Cionondimeno noi dobbiamo tentare di spiegare il creato, di rivelare che tutto è espressione del Suo Nome. 

Il verso di Isaia che Rashì cita sottolinea la capacità Divina di dare un nome ed un numero alle stelle. Lo Sfat Emet dice che questa capacità è la prerogativa Divina di trasformare l’infinito in finito. Le stelle sono infatti, per quel che concerne l’uomo, senza numero.Avraham viene sfidato a contare le stelle, ‘se sarai capace di contarleEppure per il Signore che le ha create dal nulla esse hanno numero e nome. È cosa non percepibile per l’uomo, ma lo Sfat Emet insiste che se le stelle sono finite in questo mondo (e neppure possiamo contarle) esse sono spiritualmente infinite e questa è la grandezza del Signore che ‘crea il cè dal nulla e rende numero ciò che non ha numero

C’è un verso dei Profeti che dice ‘perché io Sono il Signore e non sono cambiatoQuesto intende, spiega lo Sfat Emet, che non solo il Signore è immutabile, ma anche il senso profondo della Sua rivelazione, il Suo Nome, non cambia. Per quanto a volte noi usiamo kinuiim, appellativi, diversi per la Divinità a seconda della nostra percezione dei diversi attributi Divini, in realtà anche il Nome è immutabile. Il Suo Nome è unico sia quando viene rivelata la Torà sul Sinai che nel momento in cui l’aguzzino egiziano di turno getta i bambini nel Nilo. Allo stesso modo sono immutabili i nomi d’Israele a differenza di quelli degli angeli.

Il merito d’Israele è quello di non cambiare i Nomi in Egitto. Di capire che la nostra missione di rivelazione del Regno del Signore è immutabile tanto in esilio che in redenzione. Quelli erano i nostri nomi prima e quelli sono dopo. Noi restiamo noi, con i nostri nomi ed il nostro ruolo a prescindere dalle condizioni esterne. Per questo, spiega il Rabbi di Gur, la Torà ci sta dicendo che i nomi sono scesi in Egitto. La radice di rivelazione e redenzione precede l’esilio stesso secondo il principio per il quale Iddio prepara la medicina prima ancora della malattia.

Eppure il nome non è dato staticamente. È piuttosto il modello al quale dobbiamo fare riferimento. Il verso dell’Ecclesiaste ‘È meglio il nome, piuttosto che dellolio buono che noi usiamo nella liturgia funebre è letto dal Midrash come dire meglio Channanià, Mishael ed Azarià che sono usciti dalla fornace che Nadav ed Aviù che sono rimasti bruciati. L’olio sarebbe l’olio del’unzione sacerdotale di Nadav ed Aviù, in qualche modo un’elevazione istituzionale. Channanià, Mishael ed Azarià sono invece il buon nome inteso come lo sforzo umano di essere fedeli servitori del Signore anche senza cariche ereditarie come il sacerdozio. 

Il buon nome, la cui corona secondo il Pirkè Avot, è superiore alla corona del Sacerdozio del Regno e persino a quella della Torà, è la capacità umana di sforzarsi, di migliorarsi. 

Secondo il Midrash le stelle sono state aggiunte nel buio della notte per consolare la luna dopo che questa è stata diminuita (rispetto al sole). Per lo Sfat Emet il regno notturno della luna è simbolico del Regno del Signore che è stato diminuito nella materialità di questo mondo. Il dramma è che la luce della luna non è proprio fortissima. Il buio della materia rende difficile la percezione del Regno del Signore. Ecco allora le stelle, simbolicamente i giusti del popolo d’Israele, aiutare la luna nel suo compito. Per questo le stelle, Israele, sono scese nel buio dell’Egitto. Per illuminare lì dove meno è percepibile la luce del Signore. Dove la materia è più densa. Dove lo spirito fatica a penetrare.

È detto nel libro di Daniel “Ed i colti splenderanno come lo splendore del cielo e coloro che rendono giusti i molti saranno eterni come le stelle”. (Daniel XII,3)

Secondo il Rabbi di Gur i colti sono i Patriarchi mentre coloro che rendono giusti i molti sono le tribù. In questo senso la caratteristica delle tribù è quella di espandersi. Di essere moltiplicatori. Sono paragonate a tutto il popolo d’Israele. I patriarchi sono invece la radice. L’interiorità. Sono paragonati dallo Sfat Emet ai yechidè segulà, ai singoli tesori, a quelle persone che si distinguono particolarmente. Al giusto. Per questo è detto nel verso che giunsero con Jacov ed assieme alla loro casa. Si tratta della caratteristica unica di Israele di essere al contempo legata alla radice, ai patriarchi, all’interiorità, ma al contempo capace di farsi multiplo attraverso la famiglia, la casa, il rapporto di coppia. 

Il nostro Rabbì Ovadià Sforno utilizza questo stesso verso nel suo commento alla Parashà di Balak per descrivere il Re Messia nella sua materialità. Se noi saremo veramente capaci di mettere assieme Jacov con le tribù, il cielo con le stelle, il più semplice degli ebrei con lo zaddik saremo allora degni del nostro nome e porteremo redenzione al mondo.

Quel nome che Iddio ha chiamato attraverso il Suo stesso Nome. 

La sfida del libro di Shemot è allora proprio la capacità d’Israle di portare degnamente il suo nome divenendo unificatore e descrittore del Nome di D.. Tanto più saremo degni del nome d’Israele tanto più il Signore sarà Unico ed il Suo Nome Unico.

Jacov, il giovane


Parashat Vaichì 5771



E visse Jacov nella terra dEgitto diciassette anni…” (Genesi XLVII, 28)

La Parashà di questa settima completa il ciclo della vita dei nostri Patriarchi. In maniera paradossale la Parashà che tratta la morte terrena di Jacov nostro Padre, si apre con la parola, vaichì, e visse. Questo termine ha ovviamente incuriosito i nostri Maestri. L’idea di fondo, e ne abbiamo parlato più volte è che vita e morte sono concetti relativi. In una nota idea talmudica i giusti sono chiamati vivi anche da morti, perché si parla di loro e della loro Torà. I malvagi invece sono considerati morti già in questa vita. Perché sono morti spiritualmente. Jacov ha vissuto profondamente questi ultimi diciassette anni di vita. Li ha riempiti di vita, di significato, di Torà, di famiglia e di tanti nipoti. In realtà sappiamo molto poco di questi anni. La Torà ci racconta l’arrivo di Jacov e famiglia, ma non ci dice niente di ciò che avviene dopo. Il discorso riprende, appunto nella nostra Parashà, negli ultimi momenti di vita di Jacov.

Lo Sfat Emet ritiene che Jacov sia riuscito a portare in Egitto, nel più basso e materiale dei luoghi, la spiritualità del suo livello. Jacov compie in questo senso un operazione straordinaria. Riesce, pur scendendo nell’esilio, ad illuminare il buio rendendolo un luogo di vita.E visse Jacov. Di più dice lo Sfat Emet, Jacov non solo è coscientemente sceso in esilio ma è anche andato volontariamente in ogni ‘malein ogni situazione problematica in modo da preparare la strada per ogni futura difficoltà che avrà il popolo d’Israele. Così il Rabbi di Gur legge l’introduzione alla benedizione di Efraim e Menashè. ‘langelo che mi ha redento da ogni male…; da ogni malenel senso che Jacov ha effettivamente sperimentato ogni male. E lo ha vinto. Lo ha vinto affinché Israele potesse in futuro avere la forza di confrontarsi con tutte le peripezie che ha avuto nella sua storia.

Quest’idea di Israele popolo come proiezione di Israele patriarca porta i nostri Saggi a dire nel Talmud che ‘Jacov nostro padre, non è morto. In un certo senso Jacov si trasforma da singolo a popolo ma non muore. È vivo in ogni momento.

Quest’idea di proiezione è fortemente legata al rapporto intergenerazionale. Jacov nostro padre sembra avere una predilezione per i piccoli. Sappiamo che studiava Torà con il piccolo Josef prima che questi fosse venduto. I Saggi ci dicono che in Egitto studiava con Efraim suo nipote. In effetti l’unica cosa che la Torà ci narra di quegli anni è proprio l’incontro-benedizione con i figli di Josef. La storia è nota e le ripercussioni anche: Jacov inverte la direzione delle mani ponendo la destra riservata alla primogenitura su Efraim quantunque fosse il piccolo.

Il testo dice che mise la mano sulla testa di Efraim “veu hazair, ed egli era il giovane.

Lo Sfat Emet commenta in maniera apparentemente criptica questo episodio. Egli dice che dopo aver messo la mano destra su Efraim, “egli rimase il giovane per se stesso.

Chi rimase giovane? Efraim? Jacov? E pechè per se stesso?

Lo stesso dobbiamo chiederci per il nostro verso a questo punto. Jacov mette la mano sulla testa di Efraim che era il giovane, oppure piuttosto la Torà ci sta dicendo che nel mettere la mano sulla testa di Efraim è Jacov ad essere quello giovane.

A mio modesto avviso il Rabbi di Gur sta proponendo qui una lettura stratificata dell’episodio.

Jacov di inversioni di primogentiti con i giovani ne sa qualcosa. Si è scottato già tre volte almeno: lui è stato il giovane che ha preso il posto del primogenito. La donna che ha amato più di ogni altra cosa, Rachel, è stata la giovane alla quale la primogenita ha preso il posto. Il figlio che ha amato più di ogni altro, Josef, è stato il giovane che ha preso il posto di primogenito. Nessuno di questi episodi è stato indolore. Sono tutti traumi. Per il Rabbi di Gur la Torà ci sta dicendo che Jacov inverte le mani proprio perché è lui il giovane. Proprio dalla posizione dell’essere giovane Jacov prende questa decisione. Lo Sfat Emet dice che nonostante l’anteposizione e la conseguente primogenitura, Jacov rimase ai propri occhi il giovane. Forse avvenne lo stesso per Efraim. E forse è proprio questa condizione che Jacov vede e privilegia.

Sembra quasi che essere zair , essere giovane sia una condizione esistenziale piuttosto che un dato anagrafico. Per capire questo punto dobbiamo riflettere su un altro aspetto di questa benedizione che Jacov da ad Efraim e Meneshè. In questo caso, nonostante l’inversione non c’è conflitto. Ognuno sa essere se stesso. Ha sì privilegiato Efraim, ma Efraim resta il giovane. Menashè non è mortificato. Senza Menashè non è completa la benedizione che ogni padre ebreo da ai suoi figli ‘ti renda simile Iddio ad Efraim e Menashé’. Perché un figlio come loro è quanto un padre può desiderare. Diversi, con indoli diverse, con ruoli diversi e con priorità diverse, ma entrambi esattamente ciò che Iddio vuole. Perfetti nella loro autoreferenza. Non uno rispetto all’altro. Efraim resta il giovane ezel azmò per se stesso, perché non deve essere paragonato a Menashè. Jacov capisce ed insegna dopo una vita di tribolazioni su questo punto che ogni figlio è una perla irripetibile che come tale non va paragonata alle altre.
                                                                                               
Lo Sfat Emet ricorda come, tra tutte le benedizioni dei figli in questa Parashà, Josef è l’unico a cui il Testo associa la parola berachà.Le altre benedizioni vengono dette. Qui Josef viene benedetto. Egli commenta che il concetto di berachà, di cui altre volte ci siamo occupati, racchiude l’idea di riversare, di tirare, di proiettare. È il passaggio dell’infinito nel finito. Berachà, viene dalla radice di berechà, cisterna. Quasi ci fosse un contenitore spirituale dal quale il sacro si riversa. Ebbene questa è la caratteristica appunto di Josef, che Jacov così ama. La capacità di trasmettere benedizione, di proiettare soprattutto sulle generazioni future. Un’altra derivazione della parola bereachà è la parola berech, ginocchio. L’idea è che proprio inginocchiandoci riconosciamo l’autorità di D. ed il fatto che tutte le benedizioni vengono da Lui. La benedizione è anche e soprattutto allora il riconoscimento dell’origine Divina di tutto quanto accade. È interessante notare che questa caratteristica di Josef, che ripete a iosa che tutto viene dal Signore viene recepita in qualche modo anche dagli egiziani. Quando Josef  viene nominato Vicerè, la prima cosa che gli viene gridata al passaggio è Avrech, in ginocchio.

Non è certo un caso che anche nella nostra Parashà, le ginocchia di Josef vengono ricordate due volte. Josef nel presentare i figli alla benedizione di Jacov li fa uscire dalle proprie ginocchia. In questa descrizione così autentica della Torà, dei ragazzini intimoriti si erano evidentemente attaccati e nascosti tra le ginocchia paterne. Ma il senso è più profondo. Efraim e Menashè escono dal concetto stesso di Birkè Josef. Hanno fatto loro il principio della Berachà, dell’origine Divina di tutto, che Josef ha insegnato loro . È fantastico che Jacov stesso sia stupito di questa profonda identità tanto da costringere Josef, secondo il Midrash, a mostrare lui la Ketubà che attesta l’origine sacra della propria progenie.

Ma Josef non si ferma, negli ultimi versi della Parashà, è descritta la vecchiaia di Josef. Di nuovo sappiamo pochissimo. Non sappiamo se sia rimasto al potere fino alla fine. Non sappiamo che ne è stato delle sue politiche agrarie. Sappiamo una cosa sola e solo quella conta: ha visto figli, nipoti e bisnipoti. ‘..anche i figli di Machir, figlio di Menashè nacquero sulle ginocchia di Josef.

Non sappiamo niente. Sappiamo solo che i bisnipoti di Josef sono nati sulle sue ginocchia.

Questa è la grande lezione di vita di Jacov prima e Josef poi, in Egitto. Nel luogo dove si ammazzano tutti i bambini, egiziani compresi, per capriccio del tiranno di turno, c’è una famiglia, una cultura, nella quale il metro di una vita è la capacità di crescere nella Torà un bisnipote sulle proprie ginocchia.

La grande scommessa d’Israele è proprio nella capacità di creare le condizioni perché le generazioni si parlino. Perché nonni e nipoti comunichino. Il problema è che spesso le generazioni parlano lingue diverse. Ne sappiamo qualcosa noi. La maggior parte delle cose di cui parlano o si occupano i nostri ragazzi non esisteva nemmeno all’epoca dei loro genitori, figuriamoci dei loro nonni. Come si fa a parlarsi?

Lo si può fare solo se si riscopre che ci sono idee senza tempo, valori che non scadono e non aspettano nuove edizioni. Solo se capiamo che la Torà è la nostra vita potremo attraverso la Torà trovare quel linguaggio comune che così manca al giorno d’oggi.

Josef e Jacov non si sono visti per una vita. Il padre non sa nulla di cosa sia il figlio oggi e non è detto che avrebbe capito o metabolizzato le sottigliezze del politichese di corte. Ed il Midrash ci dice infatti che parlarono dell’ultima lezione studiata assieme: il precetto della Eglà Arufà, la giovenca accoppata.

Se saremo capaci di riscoprire la profondità della condivisione della Torà tra le generazioni faremo un gran regalo a noi, ai nostri anziani ed ai nostri bambini.

Restando ognuno giovane per se stesso.

La Mishnà di Jeudà



Parashat Vajgash 5771

E si appressò a lui Jeduà... (Genesi XLIV, 18)

La Parashà della nostra settimana segna la ricomposizione della frattura tra Josef ed i suoi fratelli. Il suo momento di maggior tensione è senz’altro nei primi versi nei quali Jeudà emerge nuovamente e definitivamente come il leader dei fratelli e si lancia in un arringa al termine della quale Josef non riesce più a trattenersi e si rivela ai fratelli.

Che cos’ha di particolare questa arringa? I nostri Maestri riflettono molto sulla parola ‘vajgashcon la quale si apre la Parashà e dalla quale prende appunto il nome. Potremmo tradurre come e si appressò e si avvicinò o ancora e si appropinquò. Il termine indica appunto tanto un avvicinamento fisico verso un oggetto o una persona di grande importanza quanto un atteggiamento di preparazione.

I Saggi hanno provato a dare diverse spiegazioni della struttura e del tono del discorso di Jeudà, spiegazioni che spesso sono assolutamente contrastanti. Forse perché il discorso stesso non è esattamente lineare. Rashì ad esempio sostiene che Jeudà ‘gli parlò duramenteRabbenu Bechajè di contro, nella sua introduzione alla Parashà, insiste proprio sulla ‘morbidezza del discorso di Jeudà.

È in effetti un discorso nel quale si mischiano rabbia, rispetto reverenziale verso una persona potente, disperazione, fiducia e tanto altro. Questo mix di espressioni che certamente è lo specchio del mix di sentimenti, forse anche contrastanti, che provava Jeudà in quel momento critico, è in qualche modo risolutivo, tant’è che Josef crolla.

Lo Sfat Emet sottolinea come in realtà non ci sia nulla di nuovo nel discorso di Jeudà. Egli piuttosto riassume gli avvenimenti, li ripete e forse li rivive. Proprio in questa ripetizione c’è però la chiave per comprendere il ruolo di Jeudà. Il nome Jeudà contiene la radice dileodot, che significa ringraziare ma anche e sopratutto accettare. A nome del nonno, il Chidushè HaRim, il Rabbì di Gur ricorda come noi veniamo chiamati Jeudim, giudei, proprio perché la nostra caratteristica è quella di ringraziare Iddio per ogni cosa, grande o piccola che sia. Ma anche per la nostra accettazione del principio che ogni cosa viene dal Signore. Jeudà allora non è solo il nome della persona ma è anche l’atteggiamento. Jeudà accetta.

Il percorso spirituale che fa Jeudà attraverso il discorso a Josef è allora per lo Sfat Emet un percorso introspettivo. Jeudà riassume gli eventi per razionalizzarli. Per accettarli ed accettare la Volontà del Signore Benedetto Sia, con gioiaEcco allora che l’avvicinarsi “elav, a lui, del nostro verso va oltre il senso immediato del Testo, ovvero ad indicare Josef. Ma può essere letto anche a lui, nel senso a se stesso, oppure a Lui, per eccellenza, ossia al Santo Benedetto Egli Sia. In questo Vajgash, è racchiusa la tensione di Jeudà che è al contempo verso Josef, verso se stesso ed in definitiva verso il Signore. Jeudà scende in profondità. Per riappacificarsi con Josef egli deve prima fare pace con se stesso, ed in qualche modo anche con il Signore.

Josef rappresenta invece nella simbologia dello Sfat Emet la profondità stessa. La radice sacra nascosta all’occhio esterno. È il sacro nascosto in profondità che va ricercato. Josef è linteriorità. È per questo che quando Jeudà, scavando dentro se stesso, e ripercorrendo gli avvenimenti ed annullandosi dinanzi al Signore giunge a quel livello di interiorità, la dimensione di Josef non può più celarsi, e Josef si rivela facendo dirompere l’interiorità.

È interessante che la tecnica utilizzata da Jeudà per scendere in profondità è apparentemente piuttosto poco accattivante. La ripetizione. In realtà Jeudà è il precursore del metodo attraverso il quale si studia la Torà: la Mishnà. La radice della parola Mishnà, insegnamento, incorpora il concetto di shanà (shin, nun, hei) il ripetere. Lo studio della Torà è Mishnà in quanto si ripete. Per capire la Torà, bisogna studiarla, e ripeterla e tornarvi sopra senza fine. La radice shin, nun, hei, che significa anche anno e riassume il concetto di tempo nella sua ciclicità, lega il concetto di studio a quello del tempo. Lo studio ha i suoi momenti, ma anche i momenti prendono vitalità attraverso lo studio. Quasi che studio e tempo fossero un tutt’uno.

In una delle acrobazie che solo l’ebraico può produrre, in questa ciclicità solo apparentemente statica si trova il shinui, il cambiamento. Quasi che solo tornando sullo stesso passo, solo ragionando senza fine sugli stessi concetti si possa produrre qualcosa di nuovo. Jeudà è dunque colui che introduce il sistema della Mishnà ed è appunto paragonato alla Torà Orale, laddove Josef è invece il simbolo della Torà Scritta. Josef e Jeudà sono due modi diversi ma complementari di servire il Signore e di vivere il proprio rapporto con il Sacro. Attraverso la Mishnà, la ripetizione, Jeudà interpreta Josef, la Torà scritta, se stesso, ed in definitiva e per quanto umanamente possibile capisce meglio l’opera Divina.

Non ci deve allora stupire che il ruolo di avanguardia che Jacov assegna a Jeudà nel preparare la discesa della Casa d’Israele in Egitto, viene percepito dal Midrash come la richiesta di predisporre un Bet Talmud, una Casa di Studio, in Egitto. Prima ancora che l’esilio inizi, per non dire prima ancora che la Torà venga donata sul Sinai, il sistema ‘Bet Midrash’ con la sua dialettica e soprattutto con la sua paziente ciclicità è parte integrante del popolo ebraico.

Lo Sfat Emet fa notare come la caratteristica di Jeudà e della Torà Orale sia nella pubblicità. Nella rivelazione. Laddove la caratteristica di Josef e della Torà Scritta è nel segreto. Se Jeudà scende in Egitto con l’intenzione rivelata di aprire una Scuola, Josef scende in Egitto in solitudine ed in segreto, e sopratutto nel segreto di un identità ebraica che per ovvie ragioni non può essere sbandierata più di tanto, nonostante i sinceri tentativi di Josef. Rivelato e segreto sono due anime della Torà.

Ma il Rabbi di Gur non tralascia di ricordare il fatto che su tutti questi discorsi e sulla complessità della rottura e della riappacificazione tra Jeudà e fratelli con Josef aleggi in maniera neppure molto velata il trauma della vendita. Jeudà non la nomina nel suo discorso, ma Josef non solo la ricorda, ma anzi la usa per definirsi. La rivelazione di Josef avviene in due fasi:

E disse Josef ai suoi fratelli: Io sono Josef, mio padre è ancora vivo? (Genesi XLV,3)
Josef si definisce con il proprio nome e basta e chiede del padre. I fratelli non riescono neppure a rispondere per lo shock. A quel punto succede una cosa incredibile. È Josef che usa il termine lagheshet e chiede ai fratelli quell’ulteriore sforzo che ha fatto Jeudà prima di loro. Vajgàshu. E si avvicinarono. Ed è a questo punto che Josef si definisce in maniera diversa:

E disse: Io sono Josef vostro fratello, che mi avete venduto in Egitto. Ed ora non vi intristite e non dispiaccia ai vostri occhi di avermi venduto qui, perché come sostentamento mi ha inviato Iddio dinanzi a voi... ed ora non voi mi avete mandato qui, ma Iddio, che mi ha posto come padre per il Faraone e come signore per tutta la sua casa e come governante su tutta la terra dEgitto. (ivi, 4-9).
Josef si definisce in quanto tale. Josef è rimasto Josef. L’interiorità non cambia. Sono i fratelli che non possono capire e devono fare uno sforzo. Lo sforzo passa per capire e razionalizzare le loro azioni, e sopratutto la vendita. ‘Io sono Josef e sono il risultato della vostra vendita’. Però quella vendita è sì opera vostra con annesse responsabilità, ma è allo stesso tempo nel piano del Signore. Da qui capiamo che è veramente tutto per il bene. Il risultato è sempre per il bene. Il male è intrinseco alle nostre azioni. Una volta fatta teshuvà e sanate le nostre responsabilità possiamo vedere come anche il risultato delle nostre azioni sbagliate è in bene. Con un percorso diverso, difficile, doloroso, ma pur sempre in bene. Perché tutto quanto Iddio fa è in bene.

Lo Sfat Emet Emet paragona la costruzione grammaticale del che mi avete venduto, con quella delle prime Tavole che hai rotto.Il termine asher, che è letto in quel caso dal Midrash come ‘Yeshar Kochacà Bravo!Si riferisce al fatto che Iddio ha apprezzato la rottura delle Tavole. Lo Sfat Emet vuole dire che così come l’apparente sacrilegio della rottura delle Tavole è un fatto positivo, così Josef consola i fratelli dicendo loro che la sua vendita ha avuto un risultato straordinario.

Cercando di approfondire questo paragone apparentemente azzardato del Rabbi di Gur, potremmo dire che la rottura delle Tavole sintetizza l’inadeguatezza d’Israele, la necessità di una migliore preparazione e lastrica la via della Torà, della Teshuvà e delle Seconde Tavole. Allo stesso modo Josef spiega ai fratelli che loro malgrado hanno creato le condizioni per una Teshuvà e per una situazione estremamente positiva. Sono stati strumento della Volontà Divina. Attenzione, questo non cambia di una virgola le loro responsabilità, ma una volta fatta teshuvà, e loro hanno fatto teshuvà, non c’è più nulla da recriminare.
Josef insegna loro che l’interiorità non è intaccabile, il disegno Divino è perfetto. È l’azione umana ad essere fallace. Ma l’errore può essere sanato.

Il motivo per cui noi non capiamo gli eventi è che proviamo a leggere le nostre vite ed il mondo che ci circonda in maniera lineare, secondo un prima ed un dopo. I Saggi ci hanno insegnato che “non cè un prima ed un dopo nella ToràCiò significa che non sempre i versi della Torà seguono perfettamente l’ordine cronologico, ma ha anche delle ripercussioni più profonde.

Chiunque abbia mai aperto una pagina di Talmud si rende presto conto che non ha senso dire che un trattato viene prima dell’altro. E questo perché già nelle discussioni del primo trattato di Berachot si chiamano in causa principi ed argomenti che saranno dibattuti solo molto più avanti. I Maestri della Mishnà e del Talmud parlano sempre come all’interno di un unicum nel quale, pur saltando da un punto all’altro con criterio, non si può mai dire cosa venga prima di cosa. Studiando il trattato di Shabbat sembra che si dovrebbe aver già studiato il trattato di Eruvin, ma quando si studia Eruvin si pensa che si sarebbe dovuto prima conoscere quello di Shabbat. Ma, anche all’intero dello stesso trattato, argomenti che verranno discussi più avanti vengono usati per definire questioni che poi avranno ripercussioni sui quegli stessi argomenti in un loop infinito. Proprio la ciclicità dello studio provoca il fatto che non c’è un prima ed un dopo ma è tutto al presente. Le scorse settimane abbiamo visto come il concetto di tempo sia estraneo alla Divinità. Ebbene la Torà, che come spiega lo Zohar è un tutt’uno con D. Benedetto Sia, è anche fuori dal tempo.

Ed è proprio quest’idea dell’unità, dell’unicità del Signore che deve generare lo stimolo per l’unità dei fratelli. Le diverse idee e le diverse vie per servire il Signore debbono trovare la loro unità. Questo è però possibile solo quando, oltre all’evidente dose di rispetto reciproco necessaria, si capisce che l’Unico che può avere una vera visione d’insieme è il Signore. La nostra porzione della visione d’insieme esiste solo in quanto ci annulliamo dinanzi al Signore ed accettiamo il suo dominio della storia e delle ripercussioni delle nostre azioni. Azioni che noi abbiamo preso nel completo libero arbitrio ma che non per questo sfuggono alla conoscenza ed al controllo del Signore.

In un epoca che privilegia la continua innovazione dobbiamo allora riscoprire il fascino della ripetizione. Dello studiare continuamente e ciclicamente, tornando, ripetendo senza fine perché come dicono i Saggi ‘non assomiglia chi ha studiato la propria porzione cento volte a colui che lha studiata cento e una volta.
È dalla ripetizione che sgorga il chidush, linnovazione. E quanto più saremo capaci di ripeterci e di riesaminarci, tantopiù la nostra sorgente interiore potrà sgorgare fuori.

Buio e Luce

Parashat Mikez - Shabbat Chanukà 5771



E disse Josef al Faraone: Il Sogno del Faraone è uno. Ciò che Iddio fa, ha narrato al Faraone (Genesi XLI, 25)

La straordinaria storia del passaggio di Josef dalle carceri al vertice del governo ha come fulcro l’interpretazione del sogno del Faraone. I nostri Saggi, incuriositi dall’improbabilità degli eventi narrati, si chiedono come sia possibile che il più potente dei sovrani dell’epoca avesse bisogno di uno schiavo incarcerato per interpretare un sogno.

In effetti la corte del Faraone disponeva di un enorme quantità di maghi, stregoni, sacerdoti, ministri e consulenti vari. Nessuno riuscìad interpretare il sogno in maniera soddisfacente per il Faraone. leFarò. Secondo il Midrash la corte propone moltissime interpretazioni ma il Faraone le respinge. Sempre il Midrash, ripreso da quasi tutti i Rishonim, individua la chiave del successo interpretativo di Josef nel sistema utilizzato. Tutti gli altri provarono ad interpretare i due sogni come eventi separati; solo Josef capisce che i due sogni sono in realtà un sogno solo. Il Faraone stesso aveva in qualche modo percepito questa unicità ma non era riuscito a spiegarla. Infatti dice sempre bachalomì, nel mio sogno e mai nei miei sogni.

L’Egitto non riesce a capire il concetto dell’uno. Nel sistema politeistico egiziano l’uno non esiste. La radice dell’unicità non c’è. È tutto multiplo.

Lo Sfat Emet paragona questa incapacità di comprendere l’unicità, con un noto Midrash di cui ci siamo occupati in passato per il quale il Faraone pur conoscendo le settanta lingue del mondo non riesce ad imparare da Josef l’ebraico. L’ebraico è la radice di tutte le lingue. È la radice sacra della capacità verbale. Il resto delle lingue sono traduzioni dell’ebraico, che è la lingua attraverso la quale Iddio ha creato il mondo. Questo livello di unicità è precluso al Faraone.

Il Rabbi di Gur utilizza il sogno del Faraone per spiegare un concetto basilare della filosofia ebraica: raza deChad, il segreto dellUno.

Le vacche grasse e quelle magre, così come le spighe e gli anni di abbondanza e carestia, rappresentano il “bene” ed il “male”.

Quando il Faraone racconta il sogno a Josef egli aggiunge un dettaglio molto interessante che non figura nel racconto “oggettivo” della Torà all’inizio della Parashà. Quando le vacche grasse vengono divorate da quelle magre, l’aspetto delle vacche magre resta magro,velò nodà ki bau el kirbenna, non ci si rende conto che sono entrate dentro, dice il Faraone. Per lo Sfat Emet questa è la chiave.

Ciò che ai nostri occhi è un evento negativo ha il suo ruolo nel mondo nel quale bene e male sono mescolati. L’errore che noi facciamo è quello di considerare il male un qualcosa di separato. In realtà tutto viene dal Signore e tutto è una cosa sola. Il punto da capire è proprio che il ‘male’ non ha una consistenza propria. Il buio non ha mammashut, consistenza, è piuttosto l’assenza della luce. Di più è l’occlusione della luce che in realtà esiste sempre. Capiamo allora che ciò che noi vediamo come ‘negativo’, che nel lessico dei mistici è chiamato Sitrà Achrà, laltro lato, è in realtà l’ombra di ciò che è buono.

Gli anni di carestia hanno un senso nel disegno Divino. Non sono meno parte del piano del Signore rispetto agli anni di abbondanza. Certamente sono meno simpatici per noi, ma questo non li rende meno ‘buoni’. Tutto è bene dinanzi al Signore. Questo è il senso profondo di quanto dicono i Saggi nella Mishnà, “E tutto ciò che ha creato il Santo Benedetto Egli Sia nel suo mondo, non lo ha creato altro che in Suo onore....

Questo è anche ciò che intendono i Saggi quando dicono che quantunque in questo mondo ci sia una benedizione per gli eventi positivi (hatov vehametiv) ed una per le disgrazie (dajan emet) in futuro diremo sempre hatov vehametiv.

Questo il Faraone non lo capisce. Lo sente ma non lo capisce. Per il Faraone una vacca magra è una vacca magra. Tu la puoi relazionare quanto vuoi al disegno Divino ed alle vacche grasse e spiegare quanto vuoi come le cose siano legate: per lui resta una vacca magra. Serve Josef per spiegare alla Corte d’Egitto il concetto dell’Uno.

Tutto viene dal Signore e tutto è opera del Signore.

La luce Divina, la luce della Creazione, la luce della Torà è esterna a questo mondo. Preesiste il mondo. È fuori dal tempo e dallo spazio. Anche ora. Quando la luce penetra nel nostro mondo finito si confronta con la materialità che spesso occlude la luce della Torà. C’è infatti un verso che dice “hinnè hachoshech jechasè eretz, il buio copre la terra. Il buio esiste solo in questo mondo ed in questo mondo si attacca alla luce e la adombra. In realtà però ogni occlusione ed ogni oscurità sono illusioni. Sono il risultato della nostra incapacità di utilizzare la materia per servire il Signore. Siamo noi che creiamo il buio quando non sappiamo attaccarci propriamente alla luce.

Ki Ner Mizvà veTorà Or. La mizvà è paragonata dal Testo ad un lume mentre la Torà è la luce stessa. Per questo motivo si può spegnere il lume di una mizvà trasgredendola, ma non si può spegnere la luce stessa. La Torà. Allo stesso tempo si può illuminare il buio facendolo scomparire proprio attraverso le mizvot secondo il principio che “un poco di luce scaccia molta oscurità.

Le mizvot sono allora il modo per ‘tirare (limshoch) la luce Divina in questo mondo cancellando il buio.

Per il Midrash il buio di cui parla la Torà nel primo giorno della creazione è il simbolo del regno di Grecia. Choshech ze Javan. Nel momento in cui noi veniamo a celebrare la sconfitta del modello Grecia, lo facciamo illuminando quel buio. La spettacolarità della mizvà di Chanukà è proprio di far coincidere nello spirito e nella materia il principio per cui la mizvà è un lume, attraverso cui possiamo capire che la Torà è luce, una luce che non può essere oscurata.

Per lo Sfat Emet questo discorso è valido anche a livello individuale. Ognuno di noi hai il suo buio. Così come ognuno di noi ha dei momenti di vacche magre e dei momenti di vacche grasse. Il buio individuale è nell’immaginario dei Maestri chiamato ‘pozzoLa prigione di Josef è un pozzo. L’acqua della Torà però può riempire il pozzo facendoci uscire.

Capire che istinto del bene ed istinto del male, che anni buoni ed anni cattivi, sono racchiusi nel concetto dell’Uno non è facile. Serve appunto la Torà per ricordarci che tutto viene dal Signore. In questo contesto un elemento chiave nel pensiero dello Sfat Emet è il ruolo dello Zaddik.

Nel momento più buio della carestia ‘Vajftach Josef. Josef aprì. Il Giusto ha la capacità di aprire un percorso verso l’interiorità. È chiaro che ognuno di noi è chiamato al suo personale processo di apertura verso l’interiorità. Spesso questo avviene proprio quando ci si trova in momenti non facili. In quei momenti possiamo divenire zaddikim.

Il pozzo in cui Josef è rinchiuso si apre all’improvviso quando questi è necessario per spiegare il concetto dell’uno. Così anche noi dobbiamo capire che le nostre vacche magre sono funzionali alla nostra capacità di spiegarci e spiegare al mondo il concetto dell’uno. Se non siamo ancora fuori dal pozzo significa che non l’acqua della Torà non ci ha ancora sollevati al punto giusto.

Dobbiamo però ricordare, sempre in ogni momento, che come Sforno dice per Josef, la salvezza del Signore è in un batter d’occhio. In ogni momento possiamo passare dal buio alla luce. E per quanto il percorso interiore può essere lunghissimo, la rivelazione ed il passaggio effetivo dal pozzo alla luce avviene in un istante.
In quest’ottica possiamo apprezzare meglio l’antico uso della Comunità di Roma nella quale si accende la Chanukà usando quanto resta del lume alla cui luce si è letta Echà a Tishà BeAv.

È un modo per ricordarci che il passaggio dalla distruzione al Santuario ricorstruito è in un batter d’occhio. E così come in una stanza buia una piccola fiammella scaccia via immediatamente il buio così una sola piccola mizvà farà pendere dalla parte del merito la bilancia d’Israele, e giungerà il Redentore a Sion, presto ed ai nostri giorni!

Come cammina il giusto

Parashat Vajeshev 5771 


Lo prese per il suo vestito dicendo giaci con me, e lasciò il suo vestito in mano sua, e scappò ed uscì fuori (Genesi XXIX,12).

La figura di Josef sulla quale verte la nostra Parashà, così come quelle delle prossime settimane, è caratterizzata dai Saggi con l’appellativo di Zadik, giusto. Josef è il giusto per eccellenza. Da qui che se vogliamo in qualche modo comprendere la figura del giusto e cercare a nostra volta di seguire il suo modello, dobbiamo legarci proprio alla figura di Josef. 

La parola ‘zedek’, giustizia, indica un atto compiuto conformemente al modello prescritto. La cosa giusta è seguire la regola. Comportarsi come la Torà richiede. Ciò si scontra spesso con i nostri desideri, con le nostre pulsioni, con il nostro istinto. È chiaro allora perché il suo rifiuto ad avere un rapporto proibito con la moglie di Putifar viene considerato uno dei maggiori atti di giustizia di Josef. Josef desiderava la moglie di Putifar e secondo una delle opinioni (Sotà 36b) era rimasto in casa quel giorno con la chiara intenzione di assecondare la sua padrona. Nonostante ciò egli vince il proprio istinto e non pecca.

L’atteggiamento di Josef diviene allora il prototipo del percorso che ognuno di noi deve seguire nella sua personale lotta contro l’istinto del male. La prima cosa che fa Josef è lasciare il proprio vestito in mano sua. Il Ramban afferma che Josef fa ciò per rispetto della moglie di Putifar. Avrebbe potuto facilmente far pesare la sua forza fisica e prendersi l’abito. Non lo fa per rispetto. 

Per kavod. Ma kavod significa anche serietà. Josef prende seriamente la moglie di Putifar ed il proprio desiderio per lei. L’errore che spesso facciamo è quello di sminuire le nostre debolezze. Se non capiamo quanto è facile peccare non riusciremo a creare una situazione nella quale non peccheremo. Josef capisce che la vicinanza fisica, lo stesso momento che servirebbe per riprendersi il vestito sarebbe fatale, ed allora rinuncia al vestito facendo la cosa giusta dal punto di vista della lotta contro l’istinto - un po’ meno dal punto di vista ‘penale’ perché sarà proprio il vestito che lo incriminerà.

Anche Sforno segue la stessa linea introducendo però un’attenta riflessione sulla doppia terminologia del nostro verso. Josef infatti scappò ed uscì fuori. Due verbi. Due azioni distinte. Per Rabbì Ovadià Sforno ‘scappò dalla stanza affinché non si rafforzasse listinto del male’. Poi una volta fuori, rallentò il passo, per non destare curiosità o ulteriori sospetti. Seguendo la linea di Sforno la prima cosa da fare è allontanarsi il più velocemente possibile dalla trasgressione, poi però si deve ritrovare la compostezza e la lucidità per affrontare serenamente gli eventi. 

L’uscire fuori è allora uno stadio successivo alla fuga dalla trasgressione, è piuttosto un momento di crescita spirituale. È il momento in cui si torna a camminare normalmente. Avraham viene invitato dal Signore a uscire fuori materialmente dalla tenda e spiritualmente dal modo di pensare al quale era abituato. Egli stesso è definito come colui che è fuori della porta. L’uscita indica dunque una condizione esistenziale. Noi siamo, in ogni momento ed in ogni epoca il popolo che esce dallEgitto. Da quel Miztraim che indica ogni occlusione e ristrettezza. 

Lo Sfat Emet dice che questo uscire fuori di Josef va inteso come ‘fuori dalla percezione dellanima e del corpoÈ sostanzialmente un atto di annullamento totale dinanzi al Signore. Per questo motivo, spiega il Rabbì di Gur, la Chanukà va posta fuori della porta. Il ruolo della Chanukà è quello di illuminare il buio di questo mondo esattamente come la Menorà è fuori dal parochet.Giacché il buio è un fenomento di questo mondo - non c’è buio dinanzi alla Sorgente stessa della Luce! - e pertanto la Menorà deve essere fuori dal Santo dei Santi. Allo stesso modo le nostre case devono essere il prototipo del Santuario e la luce della Chanukà deve illuminare fuori verso l’esterno. È poi paradossalmente l’azione che viene fatta all’esterno che torna ad illuminare l’interiorità. Lo Sfat Emet propone un parallelo con una nota parabola dei Maestri che chiamano il timore di D. ‘le chiavi della porta esternaSenza il timore di D. non possiamo aprire la porta più esterna e quindi non potremo mai varcare quelle interne anche se erano aperte.

La trasformazione del timore di D. in atteggiamento costante è il passaggio che c’è tra la corsa fuori dalla stanza e la camminata normale. 

Per il nonno dello Sfat Emet, il Chidushè HaRim, così va inteso il noto detto Talmudico (Shabbat 23b) ‘chi è solito [accendere] il lume [di Chanukà] avrà dei figli studiosiChi è solito - haraghil . Il Chidusè HaRim rovescia tutto e dice che ciò si riferisce a chi porta la luce nel solito. Colui che illumina la reghilut. Ciò che c’è fuori è il mondo ‘normale’. La routine. È lì che bisogna portare la luce. La parola raghil normale, contiene la parola reghel, perché non c’è cosa più normale di un passo normale. Il problema del passo normale è che questo viene inteso come staccato dal sacro. Il mondo del quotidiano diviene allora l’alternativa al sacro. Ma non deve essere così. Il messaggio di Chanukà è proprio quello di portare la luce nel passo normale. Di trovare la sacralità che c’è nella apparente routine. In un intuizione geniale il Chidushè HaRim così interpreta la regola che limita il tempo dell’accensione della Chanukà. Ad sheticlè reghel min hashuk. Fintanto che non cessa il piede dal mercato. Il senso della regola è che si accende fintanto che c’è gente per strada (al mercato), ossia fintanto che c’è la possibilità di rendere pubblico il miracolo. Il Chidushè HaRim interpreta però la parola ticlè non come cessare ma come completare, anelare, migliorare (e porta l’esempio dell’espressione del Salmista caletà nafshì). In questo senso il limite della mizvà di Chanukà è il completamento del modo in cui si cammina al mercato. Il miglioramento e la santificazione del reghel min hashuk, della routine stessa. 

In Ner Israel è riportato a nome del Magghid che il fatto che noi oggi usiamo accendere la Chanukà dentro casa è per via del fatto che a causa della discesa spirituale delle generazioni il dentro è diventato come il fuori. L’esterno è penetrato nell’interno. Lo Sfat Emet ci mostra però anche il rovescio della medaglia. L’Alachà prevede infatti che chi abita ad un piano superiore e non ha accesso diretto alla strada accende alla finestra. Questo è per il Rabbi di Gur, al contrario, un segno di crescita. Chi abita ai piani alti è lo zadik. Egli non è braccato dall’esteriorità, non ha un fuori vero e proprio con una porta. Eppure chiunque, a qualunque livello ha una finestra o uno spioncino verso l’esterno è lì che deve mettere la Chanukà.

Provando a mettere assieme le due idee potremmo dire che entrambi i fenomeni sono presenti nella nostra generazione. Forse è proprio quando si cresce che ci si rende conto che il fuori rischia di penetrare verso l’interno e la prima reazione è quella di chiudersi. Eppure bisogna trovare la finestra o comunque il punto di comunicazione per illuminare fuori.

Josef è stato capace di fare tutto ciò. È stato capace di passare dalla corsa al passo normale e di imbrigliare la forza di volontà che lo ha salvato dal peccato nella costanza del quotidiano. Vale la pena ricordare che la passeggiata di Josef non dura molto. Putifar torna e Josef finisce in prigione. Eppure è proprio in prigione che Josef riesce a portare la scintilla del sacro nella routine anteponendo il nome di D. ad ogni cosa. 

È questo un altro aspetto fondamentale per capire Chanukà. Lo Sfat Emet nota come il Salmo della festa, Mizmor Shir Chanukat HaBait, verta sull’alternarsi di alti e bassi. Sul rovesciamento di situazioni impossibili ‘ti innalzerò perché mi hai afflitto che il Rabbi legge come a dire che proprio la mia afflizione provoca poi l’innalzamento del nome di D. e la mia stessa successiva redenzione. E questo perché la stessa routine di cui prima, la routine di ognuno di noi, è fatta di alti e di bassi. Quello che bisogna capire è che in ogni momento, a prescindere da ciò che ci accade, noi abbiamo l’obbligo di servire il Signore. Anche i momenti difficili possono e devono essere trampolini per migliorarsi. La chiave è rimanere attaccati alla mizvà. Così il Rabbi di Gur intende il fatto che i giorni di Chanukà furono stabiliti “per Hallel e RingraziamentoCon una classica acrobazia chassidica lo Sfat Emet afferma che non diciamo l’Hallel per quello che è successo. È successo quello che è successo sicché potessimo dire l’Hallel. Il soggetto dell’azione Divina è sempre e solo il mondo della Torà e delle mizvot, la realtà si plasma attorno alla Torà e gli è funzionale. Gli eventi, anche quelli che noi non capiamo e non possiamo capire hanno un loro corso che ci deve sempre e solo avvicinare, mai allontanare.

La vera domanda è se noi siamo capaci di trasformare eventi che non capiamo completamente in una mizvà. Nell’Hallel. Nell’accensione della Chanukà. È stata quella forza dei nostri Saggi, quella di trasformare una vittoria militare temporanea ed una pagina politica di dubbia rilevanza, in un momento di crescita spirituale che ci ha dato Chanukà. È stata la capacità di creare Torà, di aggiungere una mizvà, che a reso Chanukà un appuntamento perenne. 

È stata la lettura che i Saggi hanno dato agli eventi e la loro capacità di trasformare ciò in una mizvà con la quale i bambini possono sporcarsi le mani, che ha reso e rende attuale il messaggio di Chanukà.

I nostri Maestri hanno insegnato che ogni anno la luce spirituale delle varie feste si ripropone come nel momento degli eventi originali. A Pesach la luce dell’uscita dall’Egitto si ripropone ogni anno automaticamente, a prescindere da ciò che facciamo.

Non così è per Chanukà e Purim. Anche per queste feste è possibile ricreare l’atmosfera spirituale originale ma ciò non è automatico. Dipende dalla nostra capacità di vivere la mizvà. È attraverso la mizvà che si ricrea la luce dell’evento. È per questo che a differenza delle feste della Torà, dice lo Sfat Emet, nelle quali si dice la benedizione di Sheechejanu in teoria in qualsiasi momento della giornata, per Chanukà e Purim la benedizione è legata alla mizvà della giornata. È la mizvà che crea la sacralità del tempo.

Noi viviamo in una generazione nella quale il dentro ed il fuori sono come mai mischiati. La tecnologia ma anche la cultura dei nostri tempi hanno creato delle condizioni del tutto particolari.

Il problema è che spendiamo tempo ed energie nel fare l’analisi logica e grammaticale di ogni frase e dichiarazione di questo o quel politico di turno. Di questo o di quell’evento. 

Dovremmo piuttosto pensare a come riempire questa routine con contenuti di Torà. Dovremmo imparare da Josef che, dopo aver dato prova di quanta forza ci può essere nell’anima umana, ha avuto l’umiltà di re-imparare a camminare.

Jacov e lo Shabbat

Parashat Vaishlach 5771 


E giunse Jacov integro alla città di Shechem che è nella Terra di Kenaan nel suo venire da Padan Aram e si accampò dinanzi alla Città. Ed acquistò la parte del campo nella quale aveva piantato lì la sua tenda dalla mano dei figli di Chamor, padre di Shechem per cento monete. E piantò lì un altare e chiamo: Iddio è D-o di Israele!.” (Genesi XXXIV, 18)

Nella derashà su Vaishlach del 5761 abbiamo ricordato come secondo il Midrash, Jacov giunga a Shechem di venerdì, giusto in tempo per fissare il tchum, il limite invalicabile che definisce il luogo nel quale si è scelto di trascorrere lo Shabbat. Questo insegnamento parte dalla interpretazione della parola accamparsi, vajchan, che contiene le lettere della radice “nun” “chet” che indica il riposo dello Shabbat, ma anche la grazia del popolo ebraico.

e si accampò dinanzi alla Città…:…ma nelle parole dei nostri Maestri, sia il loro ricordo di benedizione: Giunse col calar del sole e stabilì i limiti quando era ancora giorno, da qui si impara che Jacov nostro padre osservava lo Shabbat prima ancora che fosse stato dato.’” (Radak in loco citando Bereshit Rabbà 79,6)

Lo Sfat Emet propone una serie di ragionamenti su questo insegnamento. Proseguendo idealmente a ritroso la traiettoria indicata dal Midrash, egli afferma che la diaspora di Charan come prototipo di tutte le diaspore è paragonabile al modo in cui si serve il Signore nei sei giorni della Creazione. Erez Israel è invece paragonabile allo Shabbat. Dunque Jacov nostro padre giunge integro nel momento in cui passa alla modalità Shabbat-Erez Israel. Nel pensiero del Rabbi di Gur, egli sceglie di arrivare a Shechem all’ultimo momento possibile prima di Shabbat. Questo perché fintanto che il suo servizio Divino era nella modalità Diaspora-giorni feriali egli vuole sfruttare fino in fondo ogni momento. Jacov è dunque conscio che ogni cosa ha il suo tempo e che il compito dell’ebreo è quello di dare il meglio di se in ciascuna situazione. Il fatto che sta per entrare lo Shabbat nel quale si servirà il Signore in una modalità superiore non ci esime da dare il meglio di noi stessi di venerdì. Allo stesso tempo, il fatto di vivere nella diaspora, in una modalità inferiore rispetto a quella di Erez Israel, non ci esime dal dare il meglio di noi nei termini che la nostra condizione ci permette.

In quest’ottica Jacov cercherebbe fino alla fine di redimere in qualche modo Esav, proprio alla vigilia dello Shabbat. Così legge lo Sfat Emet il ripetere da parte di Jacov dell’espressione ‘per trovare grazia ai tuoi occhi’ indirizzata ad Esav. Chen, che come abbiamo detto viene associata alla parola vajchan. È evidente che lo Sfat Emet non sta facendo una ricostruzione storica: passa molto tempo tra un evento e l’altro. Dal punto di vista spirituale però Jacov cerca di avvicinare Esav in ultimo disperato tentativo nella modalità vigilia di Shabbat. Jacov sa che Esav non può servire Iddio come lui. Spera però che il suo modello possa trovare grazia agli occhi di Esav. Che Esav apprezzi Jacov e ne capisca la grandezza. Basterebbe che Esav riconoscesse questo e si “annullasse” al modello Jacov per trovare anche per lui un ruolo al servizio del Signore. Questo contatto è possibile fintanto che si è nella modalità diaspora-feriale. Di Shabbat, il Rabbi di Gur non perde mai occasione per ricordarlo, non c’è contatto possibile, spiritualmente parlando, per i gentili. Shabbat è una realtà fuori da questo mondo, inarrivabile per chi non è parte della Casa di Jacov.

Shabbat è allora lo spartiacque tra Israele ed il resto del mondo. Tra l’accampamento di Jacov nel quale c’è lo Shabbat ed il fuori dove c’è violenza e stupro. Le tre dimensioni di cui più volte abbiamo parlato nelle scorse settimane, trovano qui un ulteriore sovrapposizione. Jacov che racchiude tutte le anime di Israele incontra la santità della terra d’Israele e quindi dello spazio, nell’entrare nella santità del tempo, lo Shabbat.

Per lo Sfat Emet questo è lo spunto per spiegare un altro fenomeno: la possibilità per il finito di contenere l’infinito. Nel trattato di Avot veniamo invitati a “correre come la gazzella (Zvi). La gazzella è il simbolo della Terra d’Israele che è chiamata Eretz HaZvi. La caratteristica della gazzella è per i Saggi quella di avere la pelle ‘che non contiene la carne’. Ossia la pelle è sempre in estrema tensione, quasi che gli fosse stata data una pelle di misura sproporzionatamente piccola rispetto alla carne che contiene. Questo fenomeno diventa il prototipo del rapporto tra materia e spirito. Anche nell’uomo è stata messa l’anima che fa estrema fatica a rimanere compressa nella materialità della carne. L’anima tende a tornare verso il Cielo e solo la materialità del corpo la comprime e trattiene in questo mondo.

Lo Zaddik è colui che piano piano riesce a far salire il corpo assieme all’anima trasformando la zavorra materiale in un trampolino di crescita spirituale. Correre come una gazzella è allora una chiave nuova di approccio al sacro. Sfruttare l’handicap per crescere. Innalzare la materia. Questo discorso ha una sua dimensione particolare nello Shabbat. Nel momento in cui ci spogliamo della materialità e anzi siamo capaci di trasformare ogni cosa concreta come cibo, abiti e sesso nella delizia del servizio Divino, allora possiamo addirittura ricevere un anima aggiuntiva. Quasi fossimo riusciti a fare ulteriore spazio al sacro in un luogo nel quale a mala pena entrava ciò che c’era. Ciò che può compiere questo miracolo è per lo Sfat Emet la tshukà, il desiderio, quasi passionale, del contatto con il Divino.

Ricorderemo che nella parashà della scorsa settimana la contrazione della Terra d’Israele avviene proprio attraverso la tshukà di Jacov per le sue pietre.

È dunque necessario che il Sacro sia recintato. Lo Shabbat necessita shmirà, osservanza ma anche guardia. Il tchum dello Shabbat è il confine ideale e materiale che recinta la sacralità infinita dello Shabbat - esattamente come la luce della Creazione è riposta e salvaguardata per i giusti nel mondo a venire.
I Saggi ci insegnano che Iddio disse a Moshè: ‘Ho nel mio tesoro un dono prezioso, lo Shabbat, ed intendo darlo ai figli dIsraele: vai ed annuciaglielo. Lo Sfat Emet obietta che lo Shabbat era stato già dato in qualche forma! Da qui che per il Rabbi di Gur il regalo speciale dello Shabbat è nell’ultima parte della frase: lech veodiam, vai ed annuciaglielo. Lo Shabbat deve essere riannunciato ogni settimana. Ogni Shabbat è diverso, ogni preparazione allo Shabbat è unica ed irripetibile. Il grande regalo dello Shabbat è allora proprio nella sua dinamicità. La preparazione allo Shabbat, il modo in cui ognuno di noi si appresta ad accogliere lo Shabbat, preludio di un modo superiore, è il dono stesso dello Shabbat.

Capiamo allora che tutto verte sulla nostra preparazione. Shabbat è una realtà astronomica e spirituale. Esiste anche senza Israele. Il nostro Shabbat è il modo in cui ci prepariamo ad osservarlo. Ed il lavoro che fa in questo senso Jacov è colossale. Tutto il percorso sfiaccante che fa il nostro Patriarca nell’incontrare Esav viene letto in questa chiave dallo Sfat Emet.

Quando Jacov dice katonti, sono divenuto piccolo per tutto il bene che Iddio mi ha fatto, intende dire sia che non merita quanto ha ricevuto ma anche che più riceve dal Signore più si rende conto di quanto l’anima gli sta stretta rispetto alla materialità. Il giusto è colui che non si monta la testa, colui che sa capire che tutto viene dal Signore. Il Rabbi di Gur rovescia tutto e dice che il fatto che katonti è proprio mikol hachasadim per via di tutto il bene. Ovvero Jacov reagisce al bene divino diventando più umile. Per questo, spiega lo Sfat Emet, Iddio impiega più tempo a retribuire il giusto. Perché in un atto di bontà Egli vuole che il giusto sia pronto per reagire al meglio al bene ricevuto. Se il bene fosse poi motivo per deviare e scendere di grado, che bene sarebbe? Solo quando il giusto è pronto a fare del bene materiale un trampolino per il sacro può ricevere il bene Divino.
Ma poi tutto il percorso materiale di Jacov è lo specchio del percoso spirituale. Nella strategia del confronto con Esav i Saggi evincono dal Testo che Jacov è pronto ad applicare tre tattiche: corruzione-dono, preghiera e guerra. Prima prova a risolvere la situazione con dei doni, prega il Signore e si prepara a combattere. È certamente un approccio saggio che poi è risultato estremamente utile. Ma c’è un livello superiore. Lo Sfat Emet paragona queste tre tattiche ai tre modi in cui c’è richiesto di servire il Signore: con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutte le tue forze-averi. La preghiera è il servizio del cuore. L’anima è la persona, è colei che combatte in guerra. I beni materiali sono per i doni.
C’è dunque un percorso spirituale che accompagna l’angosciante ritorno di Jacov in Erez Israel.
Il Chidushè HaRim, il nonno dello Sfat Emet, vede nella parola SheChele iniziali di Baruch Shem Chevod. Questo indica per lo Sfat Emet l’ingresso della Volontà Divina nella natura, nella materia. Jacov entra a Shechem, nel più materiale dei posti e porta con se l’Unicità del nome di D.. Questo verso, lo abbiamo detto più volte, indica sopratutto la reazione umana al cospetto del Signore. È il modo in cui si risponde alle benedizioni nel Santuario ed è la reazione del pubblico che ascolta il Nome di D. pronunciato dal Sommo Sacerdote. È l’esternazione di un sentimento di rispetto e devozione che non può restare represso dinanzi alla rivelazione del sacro.
Prima becol levavechà etc., poi Baruch Shem Chevod. Sembra quasi uno Shemà alla rovescia. In effetti il primo verso dello Shemà, secondo il Midrash, Jacov lo pronuncia in punto di morte.
Più si va avanti, più si corre, più si deve essere capaci di lavorare in introspezione.
È paradossale, ma non meno affascinante. Noi siamo chiamati a rivelare l’unicità di D. dicendo lo Shemà dal suo primo verso, la summa del Malkut, per poi entrare nei dettagli. Dobbiamo essere spinti dalla radice sacra che è l’anima pura che è stata messa in ognuno di noi per poi entrare nel mondo delle mizvot. Ma dobbiamo essere capaci anche di fare il percorso inverso. Di partire dal particolare, dalla singola mizvà per poi giungere ad una migliore comprensione dell’Unicità di D. nella consapevolezza che fino al nostro ultimo momento in questo mondo saremo ancora in marcia in un percorso senza fine.
È questo il percorso nel quale un Jacov claudicante diventa integro. È il percorso che ci porta dal buio dell’esilio a quel sole che sorge per lui in Erez Israel.
Jacov entra in Erez Israel e traccia il limite dello Shabbat. Jacov conquista lo spazio nel momento in cui santifica il tempo. Ma capisce il tempo sacro quando ne delimita i confini geografici nello spazio. L’epicentro di questa sovrapposizione sacra è quel punto del tempo e dello spazio nel quale Jacov si siede ed apparecchia una tavola attorno alla quale spiegare alle Tribù d’Israele in cosa differisce questa sera dalle altre sere, questa Terra dalle altre terre.