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mercoledì 26 maggio 2010

L'amore dello Shabbat


Rashì, commentando l’inizio della Parashà di Beaalotechà, spiega il motivo per cui il brano della Menorà segue quello dell’inaugurazione del Santuario da parte dei Principi.

Iddio consola Aron che era stato escluso dall’inaugurazione dei Principi dicendogli che la sua mizvà ‘leolam hi kaiemet’, è presente per sempre. L’inaugurazione è una tantum, il precetto della Menorà è eterno.

Lo Sfat Emet, a nome del nonno, il Chidushè HaRim, suggerisce che ciò sia da intendersi letteralmente. Infatti quando gli arredi del Primo Santuario furono nascosti prima della distruzione da parte dei Babilonesi, il Ner Maaravì, il lume centrale che miracolosamente ardeva tanto di notte che di giorno, era acceso. E così è rimasto da allora. È ancora acceso nel luogo in cui è nascosto. Nella sua ghenizà. La luce che viene posta in ghenizà, che viene nascosta, richiama immediatamente, secondo il Maestro, la luce dei sette giorni della creazione, quella luce spirituale che è stata riposta per i giusti, per il Mondo Futuro.

In questo modo lo Sfat Emet risolve anche un’apparente contraddizione del Testo che vuole tutti e sette i lumi (e non solo sei) volgersi verso ‘penè haMenorà’ il ‘Volto della Menorà’ che in genere intendiamo proprio come il lume centrale.

Per lo Sfat Emet sono tutti e sette i lumi, attraverso lo stesso lume centrale (e compreso), che si congiungono alla Luce della Creazione. Questa Luce spirituale, sebbene nascosta, filtra in particolari occasioni e specialmente nello Shabbat. E questo è quanto intenderebbe il Signore quando dice (TB Shabbat 10b) ‘ho un buon regalo nella mia ghenizà, (nel mio luogo nascosto) ed il suo nome è Shabbat’.


La radice dello Shabbat si sovrappone alla Luce della Creazione e nel momento in cui Israel accoglie lo Shabbat, questa luce spirituale si libera dal luogo in cui è riposta. Secondo il Midrash è infatti con questa stessa luce che il Signore ha illuminato la notte del primo Shabbat.

Proprio per questo motivo l’entrata dello Shabbat diviene un momento così importante. Con l’accensione del lume sì, ma soprattuto con la consacrazione della giornata tanto nella preghiera di Arvit che nel Kiddush che ruotano attorno al brano della Genesi che descrive lo Shabbat ‘vaichulù’. Ed è sul concetto di consacrazione che verte la benedizione centrale della Amidà in quasi tutti i riti che introducono la preghiera con la formula ‘Atà Kidashta’, Tu hai santificato. Tutti, tranne gli ebrei Italiani.

Infatti nella Toseftà (Berachot III, 11) Rabbì Elazar figlio di Rabbì Zadok ricorda: ‘Papà pregava una breve preghiera nelle sere di Shabbat: Umeavatach, e per l’amore...

Questa formula, con qualche variante, compare nel Siddur di Rabbì Saadià Gaon, e si è preservata ad oggi solo nel nostro rito. L’elemento peculiare, di questa formula è il concetto dell’amore. Lo Shabbat è un gesto di ahavà, amore, e chemlà, pietà di D. nei nostri confronti. Il tema della santità si intreccia allora nella nostra lettura con quello dell’amore. È forse questo un modo per ricordarci che la Torà e le mizvot, e soprattutto lo Shabbat indicano sì il valore sacro del nostro rapporto con il Divino, ma che al contempo questo rapporto si basa sull’amore incondizionato di D. nei nostri confronti ed auspicabilmente del nostro amore nei Suoi.

Ma chi è Rabbì Zadok? Rabbì Zadok è uno dei più grandi Maestri vissuti all’epoca della distruzione del Santuario. In Ghittin (56a e b) si dice che egli digiunò per quaranta anni per scongiurare la distruzione del Santuario. Quando Rabban Jochannan ben Zakai, uscito rocambolescamente dalla città si trovò davanti a Vespasiano chiese ed ottenne tre cose: Yavne ed i suoi Maestri, la salvaguardia della discendenza della Casata di RabbanGamliel e l’invio di dottori per guarire Rabbì Zadok. Infatti la salute di Rabbì Zadok era compromessa dai quaranta anni di digiuno. In quel momento di rilevanza epocale, nel quale si chiudeva tristemente l’epoca del Santuario ed Israele veniva traghettato verso l’epoca dell’esilo, Rabban Jochannan ben Zakai sceglie tre pilastri per il futuro. Uno di questi è Rabbì Zadok. Rabbì Zadok è la voce disperata che richiama Israele alle sue responsabilità (cfr. TB Jomà 23a). Rabbì Zadok è la tradizione. Rabbì Zadok è la voce di chi ha la prospettiva degli anni e zittisce persino calibri come Rabbì Eliezer e Rabbì Jeoshua (TB Kidushin 32b). Tanto era considerato Rabì Zadok, che siedeva alla destra di Rabban Gamliel (TJ Sanedrin I, 4).

Ma Rabbì Zadok è anche un Coen. È il più grande tra i Coanim della sua epoca. Se lo sfascio morale di quei giorni non avesse reso la carica di Sommo Sacerdote una buffonata da acquistare a peso d’oro, forse proprio lui sarebbe stato Sommo Sacerdote. La tragedia personale di Rabbì Zadok gli permette quindi di capire quaranta anni prima ciò che sta succedendo.

Interessante notare che uno degli unici altri usi liturgici del termine ahavà, amore, è proprio nella BirkatCoanim. I Coanim recitano la benedizione ‘che ci hai santificato con la santità di Aron e ci hai comandato di benedire il suo popolo d’Israele con amore. Nel ruolo del Coen troviamo dunque l’intreccio santità-amore. Solo un Coen poteva capirlo.

Rabbì Zadok guarisce ed assieme ai Maestri di Yavne forgia l’ebraismo del dopo Santuario. È l’anello che lega quella generazione devastata (e noi con loro) a giorni migliori. A ciò che è stato ed a ciò che sarebbe potuto essere.

Il nostro rito, il rito dei Benè Romi, dei figli di Roma, non ha dimenticato Rabbì Zadok. E da duemila anni, nella città di Vespasiano e dei suoi medici che hanno guarito Rabbì Zadok, ci invita ad accogliere lo Shabbat ragionando sì sulla santità, ma anche sull’amore. Con un antica formula di Erez Israel, oggi tornata a Jerushalaim, dalla ghenizà romana nella quale l’aveva riposta il Santo Benedetto Egli Sia. Di questo (e di tanto altro), dovremmo essere gelosamente orgogliosi.


Shabbat Shalom.

(Nell'immagine - Il testo di Umeavatach, come compare nel Machazor di Bologna - 1501)












lunedì 17 maggio 2010

La maternità è della Lettura

Come noto a Shavuot si usa mangiare chalavì, di latte. Questo uso viene spiegato dalla Mishnà Berurà con il fatto che una volta ricevute le regole della Kasherut era molto più semplice preparare un pasto a base di latticini.

Secondo altri (così ho sentito da Rav Mordechai Elon shlita) c’è un remez, una allusione al fatto che nelle tre volte in cui nella Torà compare il divieto di mangiare carne e latte questo è in concomitanza con il precetto di presentare le primizie - relativo dunque a Shavuot. Questa allusione mi ha sempre incuriosito. Non mi è mai stato chiaro perché concentrarsi sul latte che compare nel verso tanto quanto la carne.

Mi sembra che lo si possa spiegare sulla base della discussione che compare alla pagina 4a del trattato di Sanedrhin. La ghemarà cerca di chiarire il concetto di em lamikrà ed em lamasoret. Em - mamma, è generalmente attribuito a ciò che è importante. Mikrà è il modo in cui una parola della Torà si legge, mentre Massoret - tradizione è il modo in cui la si scrive. La domanda è cosa ha la precedenza (nella lingua del Talmud chi detiene ‘la maternità’): il modo in cui si scrive o il modo in cui si legge?

I Maestri della Mishnà concordano che tanto il modo in cui una parola si scrive che il modo in cui si legge, vengono dal Sinai. La domanda è cosa conta di più al fine dell’interpretazione del Testo. Si deve infatti ricordare che a volte una parola non si legge esattamente come è scritta. A volte essa è scritta in forma difettiva. A volte invece c’è una lettera apparentemente superflua e via dicendo. Qual’è l’originale? Chi detiene la ‘maternità’?

La discussione viene in qualche modo sbrogliata - come spesso avviene - dal caso limite. Il caso in cui la scrittura (massoret) si presta a diverse letture (mikrà) di cui solo una valida. Il caso limite in questione è proprio il nostro verso che proibisce carne e latte nel quale la radice ‘chet, lamed, bet’ può essere letta tanto ‘chalav’ - latte - quanto ‘chelev’ - grasso. La tradizione ci dice che si legge chalav, latte con le relative conseguenze halachiche e questo prova che ‘yesh em lamikrà’, che la ‘maternitàè della lettura- ossia che si segue la lettura.

Rabbì Meir Abulafia, lo Yad Ramà, spiega che il motivo per cui la tradizione della scrittura è chiamata ‘em lamassoret’ è per via del fatto che questa è conosciuta da pochi esperti: gli scribi che ricevono la tradizione dai propri maestri. Al contrario la mikrà - la lettura - è retaggio di tutto il pubblico che legge o che ascolta la lettura della Torà.

La parola chalav, latte diviene allora l’archetipo della supremazia della lettura sulla scrittura, della oralità della Torà rispetto al modo in cui viene scritta. Insomma della supremazia della Torà Orale sulla Torà Scritta. Senza la Torà Orale, senza i Maestri, non sapremmo nemmeno come si legge la Torà. Ed allo stesso tempo, la scrittura è per pochi scribi esperti, la lettura è per tutti.

Possiamo allora capire a fondo come Hillel cambiasse la lettura delle lettere a quel gentile che voleva convertirsi senza essere disposto ad accettare la Torà Orale, mentre gli insegnava a leggere. Questi gli chiese: ‘ma come? ieri mi hai detto che era la lettera Alef!? ‘Ieri ti sei fidato, oggi non ti fidi?’ rispose Hillel. Senza Hillel il convertendo non poteva sapere come si pronunciassero le lettere. Senza i Saggi non sapremmo leggere.

Possiamo apprezzare meglio quest’antico uso che nel giorno in cui è stata data la Torà ci invita a tornare al quel chalav che è latte (e non chelev, grasso) solo perché la ‘maternità è della lettura’.

Moadim LeSimchà