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martedì 16 novembre 2010

Jacov e la contrazione dello spazio e del tempo

Parashat Vajezè 5771

La nostra Parashà si apre con lo straordinario sogno di Jacov nostro padre. Il mio Maestro Rav Chajm Della Rocca shlita, ricorda spesso che Jacov fa questo sogno così importante e spirituale dormendo per terra. A Charan Jacov sognerà invece animali. Da qui che è meglio dormire per terra in Erez Israel che nei migliori comfort nella golà.

Per tanti anni ho sottovalutato l’importanza di questo insegnamento. Secondo il Midrash Jacov si è appena fatto derubare dal figlio di Esav che era stato mandato ad ucciderlo. ‘Il povero conta quanto un morto dice il Talmud e Jacov vuole metterlo in condizioni di poter dire al padre di averlo ucciso. Jacov è dunque povero. Dorme per terra forse anche perché non ha di che pagare un alloggio a Luz, che era lì vicino. Il Midrash, è noto, dice invece che la terra si accorciò, e così il giorno, ed egli fu colto dalla notte. Questo spiega anche come mai Jacov abbia trasgredito quanto dicono i Saggi: che si deve entrare in città prima che faccia buio. Forse il doppio miracolo della terra e del giorno che si accorciano è quello di non avergli consentito di giungere in città dove forse non avrebbe potuto dormire per terra. Va però ricordato che Jacov ha un papà molto ricco. Ed anche Avraham era ricco. Questo improvviso stato di povertà deve certo aver colpito molto il nostro patriarca e ciò si vede anche dalle richieste materiali che inserisce nella preghiera.

Allo stesso modo Jacov torna ad essere ricco grazie al proprio ingegno e lavoro, indipendentemente dalla ricchezza di famiglia. È interessante notare l’attenzione che Jacov pone nella materialità: Rashì spiega così l’attaccamento ai piccoli vasi di olio oltre lo Jabbok della prossima parashà. I giusti faticano per il proprio sostentamento e non sprecano nulla.

Povertà e ricchezza materiale è accompagnata anche da povertà e ricchezza spirituale. Rav Mordechai Elon shlita parla spesso di Charan in termini di ‘Khaal Kadosh’, il termine che indica la Comunità. Jacov a Charan ha una vita spiritualmente intensa. Nel buio della golà la luce dello Zaddik brilla di più. A Charan Jacov mette al mondo undici dodicesimi del popolo ebraico più una figlia. A Charan Jacov pone le basi per divenire Israel.

Lo Sfat Emet sottolinea che la rivelazione del sogno della scala avviene nel momento in cui Jacov accetta una discesa spirituale. Jacov sceglie di entrare nel buio del galut per pavimentare la strada del popolo ebraico in ogni suo esilio. Questa discesa è consapevole ma non meno dura. Così il Rabbi di Gur spiega il fatto che la rivelazione avviene in sogno. Jacov sceglie un livello nel quale la rivelazione diretta da sveglio ‘aspeklaria meirà, non è possibile. Forse così anche va inteso il midrash quando dice che Jacov non vuole salire sulla scala, anche dopo l’invito Divino. Questo è il momento in cui per la tradizione Jacov istituisce la preghiera di Arvit, nella sua complessità: una preghiera non obbligatoria poi codificata dai Saggi. È la preghiera nel buio, nelle avversità. Jacov vi giunge sulla base dello sforzo applicato nel corso della giornata. Il sogno è perciò un grande attestato delle virtù di Jacov che riesce a trascinare nel buio della notte e del galut la luce della Torà di Erez Israel. La grandezza di Jacov sta proprio nel non montarsi la testa. Avrebbe dovuto essere orgoglioso del sogno, dice lo Sfat Emet, e invece ha paura. Paura di non essere all’altezza.

Al contrario, a Charan Jacov risorge. Sposta pietre enormi con la forza della fede, diventa fonte riconosciuta di benedizione (Lavan e i suoi figli) si sposa due volte, mette al mondo figli e diviene Israel.
Quando i Saggi dicono che è meglio dormire per terra in Erez Israel che sui cuscini a Charan ci stanno dando una chiave di lettura molto più profonda di quello che crediamo. Non è solo una questione di evidente attaccamento sentimentale ad Erez Israel. C’è qualcosa di più.

La forza di Erez Israel è tale da renderla il centro gravitazionale della Torà, anche quando il livello spirituale apparente è superiore nella Golà. Maimonide, sottolinea che il Rosh Chodesh dipende dal Tribunale di Erez Israel. E persino se tutti i Saggi sono in golà e tre soli pastori ignoranti in Erez Israel, sono 
questi ultimi a stabilire e santificare il primo del mese.

Lo Sfat Emet sottolinea che la Kedushà di Erez Israel dirompe nel miracolo della concentrazione della Terra che secondo il Midrash si raccoglie tutta sotto al corpo del giusto. Così anche il tempo si restringe in un unico punto di congiuntura tra presente passato e futuro. Jacov poi è nell’immaginario rabbinico l’anima che racchiude tutte le anime. Tempo, Spazio ed Uomo Olam Shanà e Nefesh, si contraggono. Il Rabbi di Gur dice che questo fenomeno è parallelo al fatto che Iddio, Benedetto Egli Sia, che è infinito, fa ‘contrarre’ la Sua presenza tra le due aste dell’Arca, che successivamente era posta proprio nello stesso luogo in cui Jacov si stende. Jacov e tutto l’universo con lui, ‘implode’ nel luogo in cui si contrae la Shechinà stessa.

Nel pensiero dello Sfat Emet ciò che mette in moto questo meccanismo è la ‘nostalgia di Jacov per Erez Israel. Tale nostalgia è segnalata dalla raccolta delle pietre, sulla scia del verso dei Salmi che dice ‘Ki razzù avadecha et avanea. I tuoi servi hanno desiderato le sue pietre. Queste pietre, che si cementano poi in un’unica pietra, sono per lo Sfat Emet le lettere della Torà. Jacov, con il suo amore per Erez Israel compone attraverso le pietre-lettere la preghiera di Arvit.

Quando, alla fine della Parashà, Jacov si appresta finalmente a tornare in Erez Israel, nello stipulare il patto con Lavan, dice ai figli di raccogliere delle pietre. La presa di possesso di Erez Israel passa per le pietre intese come lettera della Torà. È forse per questo motivo che la Torà sottolinea in questo la differenza tra Israel ed il resto del mondo nell’uso delle lettere e della lingua ebraica. Quello che per Lavan è Yegar Saadutà, per Jacov è Galed.

In una sua straordinaria intuizione lo Sfat Emet cita il Midrash: Iddio ha messo nel linguaggio dei Padri la chiave della redenzione. Il Midrash lo dimostra con una serie di versi nei quali si alternano frasi dei Padri, ed in particolare quelle della nostra Parashà, e dei Profeti e si alterna anche la forma verbale passata e futura. Lo Sfat Emet spiega che questo è il senso profondo di un curioso quanto profondissimo fenomeno grammaticale dell’ebraico. La vav haipuch. La vav conversiva. Quella lettera vav che trasforma il passato in futuro e viceversa.

La redenzione futura sarà testimonianza della veridicità della rivelazione passata. Passato e futuro si fondono attraverso una vav, lettera che indica il collegamento. Il passato diviene futuro e il futuro passato. Il passato trova nel futuro la sua riprova ed il futuro si radica nell’esperienza storica. Ma per il Signore che è fuori dal tempo, c’è solo il presente. La vav conversiva diviene allora non solo il punto di contatto tra passato e futuro, ma anche tra uomo e D.

Il collante del Santuario sono i vavvè haamudim, laddove la vav diviene figurativamente ciò che tiene assieme le cortine del Mikdash.

Non è certo un caso che proprio Jacov ha con la lettera vav un rapporto speciale. Jacov è scritto quasi sempre in forma difettiva, senza vav. Solo per cinque volte compare Jacov con la vav. Sono, per la tradizione parallele alle cinque volte in cui Eliahu, annunciatore della redenzione è scritto Elià, senza vav. Jacov ed Elià sono legati dalla vav. L’esprienza dei Padri e la Redenzione passano per la vav.
Tempo, spazio, umanità, presente e passato si concentrano in un solo punto.

Il corpo di Jacov che racchiude tutte le anime arriva a coincidere con Erez Israel. Futuro e passato diventano presente. Tutte le lettere diventano una vav.

Questo momento-luogo unico non è un una tantum. Non è mai finito. Il senso del sogno della scala nelle sue diverse interpretazioni legate alla storia di Israele lo indicano chiaramente. Jacov è ancora steso lì, l’universo è anora racchiuso sotto al corpo di Jacov tanto che i Saggi dicono che il suo ‘djukanil suo ritratto, è scolpito nel Trono di D.

Rav Dessler in Mictav MeEliau dice, in versi poetici, che futuro e passato sono irrilevanti. Uno è solo ricordi, l’altro è solo speranze. Ma il presente ‘chajechà u, vecullò rak nissionot. È la tua vita ed è tutto solo prove.

Jacov, nel profondo dell’abisso di un esperienza tutt’altro che simpatica, capisce che il passato di ricchezza e l’incertezza del futuro non contano nulla. Conta solo il presente ed il modo in cui si affrontano le prove che Iddio ci invia.

Può essere tremendamente difficile. È certo più facile la vita della comoda Santa Comunità di Charan. Ma non è quello che il Signore vuole. È meglio dormire per Terra in Erez Israel perché solo in Erez Israel è possibile collegare passato e futuro nel presente del Signore.

In Erez Israel Jacov non ha nulla, ma innesca la costruzione del Santuario in quel luogo. A Charan ha tutto, ma è nel luogo dove Lavan minaccia di distruggere tutto, peggio del Faraone.

La grandezza di questo insegnamento è proprio lo stravolgimento dei molti luoghi comuni. Ci sono infinite scuse per non adempiere al precetto positivo di risiedere in Erez Israel. Molte sono legate al passato ed alle tradizioni. Altre al futuro ed a progetti differenti. Ma solo in Erez Israel possiamo vivere il presente della nostra vita ebraica.

In golà possiamo forse avrere di più. In Israel possiamo essere. Essere al presente.
Curioso che il verbo essere al presente in ebraico non esista. Il presente del verbo essere è il Nome di D., che non si può pronunciare. Se non proprio in quel Luogo dal Sommo Sacerdote quando è chiaro a tutti che Israel ed il Santo Benedetto Egli Sia e la Torà, sono una cosa sola.
Shabbat Shalom

I pozzi e la Torà

Parashat Toledot 5771
        
E tutti i pozzi che avevano scavato i servi di suo padre nei giorni di Avraham suo padre li ostruirono i Filistei e li riempirono di polvere” (Genesi XXVI, 15)

La nostra Parashà, nella sua sconvolgente attualità, ruota attorno alla figura di Izchak. Un patriarca di cui forse si parla poco, ma la cui opera è fondamentale per la formazione del popolo d’Israele. Izchak è al contempo l’uomo del timore di D. e l’uomo d’affari per eccellenza. Egli racchiude la summa del timore reverenziale che si deve al Signore, facendo di questo attributo la chiave del suo culto. Ma allo stesso tempo è un uomo estremamente saldo nella sua opera materiale. Pozzi, piantagioni e affari. Affari che gli vanno particolarmente bene nonostante le difficoltà legate al tempo e allo spazio, come dice Rashì: l’anno era difficile e la terra era difficile. Nonostante ciò Izchak prospera. 

Se c’è una cosa che dobbiamo però capire è che Izchak non è Avraham. Questo avvicendamento generazionale è comprensibile proprio alla luce del rapporto con gli altri. I Filistei. Il nostro verso-fonte descrive il modo in cui i Filistei otturarono i pozzi di Avraham dopo la morte di questi. 

Bisogna capire a fondo questo atteggiamento. L’acqua è la risorsa più importante del medio oriente. Che senso ha privarsene? Il Chizkuni afferma che i Filistei volevano con ciò recidere la chazakà - la presa di possesso  della Terra da parte di Izchak. Ciò, completa il discorso il Radak, a costo di pagare un prezzo loro stessi. Non avrebbero potuto tenersi i pozzi dopo aver cacciato Izchak? Avrebbero potuto, ma temevano che Izchak un giorno se li sarebbe ripresi. ‘Anche lui, anche noi, non li avremo dice il Radak.

I Filistei, come i Filistei di ogni generazione, non hanno alcun amor proprio, né particolari aspirazioni personali. Vogliono impedire la chazakà di Israele su Erez Israel perché capiscono che questa è parte del piano Divino. Essi combattono Israele perché combattono la radice sacra che è nell’opera di Israele. Rashì, sulla base di TB Pesachim 42°, ricorda che il termine stimà, ostruzione, indica in primo luogo l’ostruzione del cuore. I Filistei ostruiscono i pozzi fisici al fine di poter continuare ad ostruire il proprio cuore. 

Su questa impalcatura i nostri Saggi hanno inserito delle letture molto più profonde di questi versi. Il pozzo è per eccellenza il simbolo della Torà. La Torà, che è paragonata all’acqua, sgorga come una sorgente solo quando il lavoro dell’uomo rimuove ogni ostruzione. In questo contesto ogni generazione ha i suoi pozzi, ogni generazione ha il suo modo di avvicinarsi alla Torà ed al servizio Divino. Lo Sfat Emet dice espressamente che ‘per questo li ostruirono, perché Izchak potesse aprire le proprie aperturÈ. Ovvero i Filistei sono loro malgrado strumento del piano Divino affinché Izchak fosse stimolato a trovare il proprio percorso, a scavare la propria strada verso la Torà, legata a quella di Avraham ma indipendente. Ed Izchak lo fa, ed anche bene. Scava i propri pozzi e li chiama con i nomi con i quali li aveva chiamati Avraham. È un operazione straordinaria che dovremmo sempre avere in mente quando ci relazioniamo alle generazioni che ci hanno preceduti. Cambiano gli strumenti, cambiano i modi ed ognuno ha i suoi. Il nome resta lo stesso. Lo scopo, l’intenzione è sempre e solo quella di servire il Santo Benedetto Egli Sia. 

Il racconto della lite con i pastori di Grar diviene allora uno scenario spirituale ben diverso. “Per quanto [il Testo] leghi tutti [i litigi] ai pastori di Grar, evidentemente si trovano questi litigi nel cuore di ogni ebreo, il cui servizio viene sviato quando non è preservato appropriatamente e si trascina (nigrar) appresso alla propria opera un miscuglio negativo. E questo è quello che è chiamato pastori di Grar ciò che si trascina (nigrar) nel cuore delluomo la superbia e laltezzosità di dire lacqua è nostra.” (Sfat Emet 5645)

Lo Sfat Emet analizza il rapporto tra Avraham ed Izchak proprio alla luce dei nostri versi. Avraham, è noto, si caratterizza per l’amore del Signore, per la misura della bontà, il chesed. Ma il chesed, tende ad espandersi, l’amore è dirompente e prima o poi nel suo fagocitare incontra la materialità e la falsità che è in essa (alma deshikra). Si può arrivare all’amore della materialità. E la polvere che questo genera ostruisce i pozzi. Non così è il timore di D. che è il risultato di una profonda introspezione, dunque tensione centripeta. Izchak, rimuovendo con compostezza la polvere che ha ostruito l’amore di Avraham scopre il timore. Da qui dice lo Sfat Emet che il vero amore genera il timore. Ognuno di noi si avvicina al Signore preso dall’amore e dall’entusiasmo. Questo atteggiamento, per quanto positivo ed indispensabile, prima o poi si raffredda. Tanto l’amore è grande tanto è difficile che non incontri la polvere. E prima o poi la polvere ostruisce. Per rimuovere la polvere ci vuole uno strumento diverso, il timore di D. Per questo il verso dice ‘Avraham generò Izchak’, perché Izchak è il risultato dell’amore di Avraham ed il timore di Izchak è la corretta evoluzione dell’amore di Avraham.

Mi sembra che questa sia un importante lezione per tutti noi. Esistono delle fasi nella vita di ognuno di noi, ma anche della nostra collettività. Ci sono dei momenti di grande entusiasmo e dei momenti di introspezione. Bisogna saper legare le cose, mettendo lo stesso nome ai nostri pozzi.

Il Rabbi di Gur, a nome del nonno, il Chidushè HaRim paragona i tre pozzi di Izchak ai giorni della settimana. Esek e Sitnà corrispondono ai giorni della settimana, Rechovot, allo Shabbat. Esek e Sitnà portano nella loro radice il litigio, l’odio. Nel corso della settimana nella quale ci confrontiamo con la materialità, il nostro servizio del Signore deve essere legato all’odio profondo per l’istinto del male. Noi dobbiamo, nella materia stessa, separare il bene dal male. Di Shabbat però possiamo entrare in un mondo completamente diverso, nel quale tutto è spiritualità. Di Shabbat la radice sacra si allarga, Rechovot, dalla radice di allargare, ingrandire. Di Shabbat lo spirito si espande attraverso l’astensione dalle melachot, i 39 lavori proibiti. Per questo motivo non c’è litigio per il terzo pozzo.

Lo Shabbat è retaggio unico del popolo d’Israele. Le nazioni del mondo ci combattono nella materialità della settimana, ma nello Shabbat ‘ein magà nochrì - non cè contatto estraneo. Di Shabbat Israele è in una dimensione irraggiungibile. Non c’è niente su cui litigare dinanzi alla chiarezza della santificazione di Israele attraverso lo Shabbat. Forse è per questo che i Saggi sono stati così duri al punto da dire ‘che un gentile che osserva lo Shabbat è reo di morte.

Lo Zohar asserisce che ciò che i pozzi rappresentano è presente nella nostra vita attraverso le mizvot di Zizzit e Tefillin. Queste, tra i più quotidiani precetti dell’ebreo ci legano fisicamente alla sorgente della vita. Lo Sfat Emet, commentando lo Zohar, propone un interessante collegamento tra ciascuno dei patriarchi, uno dei pozzi, ed una mizvà.
la radice del pozzo è la Torà, ma ci sono molte strade attraverso le quali trovare la Torà e la Torà è chiamata: Torat Chesed, Esh Dat e Torat Emet...”
·         Avraham è evidentemente la Torat Chesed. Il Chesed come detto si espande e prima o poi entra in conflitto con l’esteriorità. È il pozzo di Esek. Del conflitto, ‘lacqua è nostra dicono i Filistei. Il Chesed di  Avraham è paragonato alla mizvà dello Zizzit. Perché esso avvolge tutto come il Tallit. Ed infatti quando mettiamo il Tallit dicamo un verso nel quale la protezione Divina è chiamata ‘Yakar Chasadechà’.
·         Izchak è il timore di quella Torà che è un fuoco - Esh Dat. È un timore introspettivo, non c’è contatto estraneo. Per questo c’è solo l’odio degli altri ‘Sitnà’ - ma non c’è scritto che reclamino nulla. In questo caso vogliono solo impedirgli di essere temente. Izchak è paragonato alla Tefillà del braccio. Questa viene posta sul braccio sinistro che simbolicamente è legato alla misura del timore. 
·         Jacov, la cui misura è la verità come è scritto ‘concedi verità a Jacov è la chiave dalla Torat Emet. La Torà di verità. È il pozzo di Rechovot sul quale non c’è contrasto. L’estensione che è nella parola Rechovot (rahav = largo) bene si sposa con un altro verso nel quale è detto che la discendenza di Jacov erediterà un ‘retaggio senza limiti’. È la Tefillà della testa della quale è detto (e nel rito italiano questo verso si dice proprio nel momento in cui si indossa) ‘e vedranno tutte le nazioni del mondo che il Nome del Signore è chiamto su di te e ti temeranno

In questa stupenda simbologia ogni mattina noi ripercorriamo la strada dei Padri mettendo prima il Tallit, poi la Tefillà del braccio e quindi quella della testa. Non c’è un giusto o sbagliato nel percorso di ciascuno dei patriarchi, ma piuttosto una evoluzione che anche noi siamo chiamati a compiere. In particolare sottolinea lo Sfat Emet, va notato che Avraham ed Izchak hanno una discendenza non completamente ebraica. Ishmael ed Esav. Questo va motivato con il fatto che ‘cè amore e cè amore, e così anche per il timore. Amore e timore, sono due misure umane che possono essere indebitamente attribuite. Ed anche per dei giganti come Avraham ed Izchak possono mischiarsi amori o timori ‘pesulot’ - squalificati.
Non così è la verità di Jacov. La verità è immutabile. La discendenza di Jacov è interamente kasher. Il motivo è che amore e timore sono misure umane, e che quindi possono fallire. La verità, la radice profonda della Torà, è invece il sigillo Divino, immutabile e perfetto. In questo senso si arriva in cima alla scalata delle proprie capacità umane quando si capisce che tutto viene dal Signore, anche le nostre capacità: solo lì c’è la verità di Jacov. 

Come in ogni cosa dell’ebraismo però, il percorso è importante tanto quanto il risultato. Avraham ed Izchak sono indispensabili per arrivare a Jacov così come non si può arrivare allo splendore della verità ‘Tiferet-Emet’ di Jacov senza passare per il chesed di Avraham ed il pachad Izchak. 

Il principio, dice lo Sfat Emet è paragonabile al concetto Talmudico per il quale chi fa un regalo lo fa di buon grado ‘con buon occhio’. Per questo chi regala un pozzo, intende dare anche la strada di accesso. Così anche per arrivare al pozzo di Jacov, abbiamo bisogno della strada di Avraham ed Izchak. Così come per arrivare allo Shabbat abbiamo bisgono della settimana, che ci prepara alla Kabalat Shabbat. Per questo è così importante aggiungere dal profano al Sacro, anticipando l’ingresso dello Shabbat. 

Come mi ha scritto una volta il mio Maestro, Rav Reuven Roberto Della Rocca shlita, il compito della nostra generazione, forse più di ogni altra, è quello di riscavare i pozzi che i Filistei di ogni generazione hanno ostruito. Credo che il percorso che traccia lo Sfat Emet possa esserci particolarmente utile in questo senso. 

I Filistei non vogliono l’acqua, vogliono litigare. Di più vogliono tenerci occupati nel litigio per impedirci di occuparci di Torà. Così i Saggi dicono di Goliath che stava lì dalla mattina alla sera per evitare che potessero dire lo Shemà della sera e della mattina. Ora se c’è da litigare, siamo bravissimi anche in questo. Se c’è da far polemiche senza fine su cosa ha detto questo o quel Filisteo, va bene,  ci sono certamente momenti in cui vanno fatte. Ma se noi facciamo del nostro ebraismo un litigio perenne su questo o quel pozzo restiamo ad Esek e Sitnà. 

La vera forza di Israele è saper divincolarsi ed arrivare a Rechovot. Arrivare allo Shabbat, arrivare alla Torà. Se il compito della nostra generazione è recuperare la Torà bruciata nei crematori di Auschwitz, non ci riusciremo certo facendo il gioco dei Filistei che ci vogliono prigionieri del ricordo. 

Il ricordo, quello vero, è ben altra cosa, ci si arriva quando si è se stessi, quando ci si occupa di Torà, quando si capisce che solo se giochiamo nel campo di Rechovot, nel quale non c’è possibile accesso per mano straniera, alla fine razionalizziamo anche la strada fatta, per dura che sia. 

Forse è arrivato il momento di spegnere un po’ le televisioni dell’ebraismo della Shoà ed aprire qualche libro di Torà, della Torà della Verità di Jacov. 
Di quella verità che, in ogni caso, interessa solo a noi.
Shabbat Shalom

Aggiustare il tempo

 Parashat Chajè Sarà 5771

E furono gli anni della vita di Sarà: cento anni, venti anni e sette anni, gli anni della vita di Sarà. (Genesi XXIII,1)

gli anni della vita di Sarà: tutti uguali nel bene (Rashì in loco)

La nostra Parashà narra gli eventi della vecchiaia di Avraham e Sarà. In effetti si apre proprio con la morte di Sarà e la sua sepoltura. A ben vedere, è la prima volta che la Torà si occupa di vecchiaia. In effetti il Midrash dice che Avraham ha chiesto a D. di invecchiare. Fino a quel momento la vecchiaia, nel senso biologico del termine, non esisteva. Si viveva la propria vita e ad un certo punto si moriva. Senza invecchiare. Ma la vecchiaia che chiede Avraham non è solo una vecchiaia biologica. Il termine zaken, vecchio, è per i nostri Maestri acronimo di Ze sheKaNa Chochmà. Colui che ha aquisito saggezza. In tutta la Torà la parola zakenindica in primo luogo il Saggio.

Cercheremo di capire meglio cosa chiede (ed ottiene Avraham) e come mai la nostra Parashà insiste così fortemente sugli anni di Sarà ed Avraham, attraverso il commento dello Sfat Emet. A questo però dobbiamo premettere alcuni concetti che il Rabbì di Gur dà per acquisiti, ma che per noi tanto semplici non sono.

Tra le tante difficoltà che abbiamo nel provare, per quanto umanamente possibile, a comprendere il Divino, un posto di rilievo lo occupa certamente la difficoltà di comprendere la trascendenza Divina rispetto al mondo come lo conosciamo, nelle sue dimensioni. Iddio, benedetto Egli sia, è fuori dal tempo e fuori dallo spazio. È fuori dalle dimensioni che descrivono la nostra esistenza. I nostri mistici hanno descritto la creazione come una “contrazione” di D. che “fa posto al mondo”.

Questo “posto”, che è poi il nostro universo, si articola nella nostra tradizione in tre dimensioni: olàm (spazio), shanà (tempo), nefesh(anima/persona). Il Signore come detto trascende queste dimensioni: è fuori dallo spazio, fuori dal tempo e non ha corpo né sembianza corporea. Anche a questo alluderebbe la triplice espressione di Kadosh, Kadosh, Kadosh, Santo, Santo, Santo della Kedushà, nel senso di ‘distinto’ da queste tre dimensioni. Queste dimensioni, nei loro particolari, sono in effetti tutti gli elementi dell’opera della creazione. Esse vengono poeticamente chiamate levushim,  abiti. Nella poesia del Qalir che nel rito italiano viene letta la mattina di Rosh Hashnà, il Signore è descritto come il Re dai dieci abiti. Ognuna delle dieci espressioni con le quali il Signore crea il mondo è un abito di cui Iddio si ammanta. Ad esempio ‘Iddio stende la luce come un abito’.

Così il Rambam spiega come non ci sia alcun paradosso tra la conoscenza assoluta del Signore (anche delle nostre azioni future) ed il libero arbitrio. Iddio è fuori dal tempo, prima e dopo non esiste dinanzi a Lui, e tutto è ‘biskirà hachat - in un unica occhiata.Forse così possiamo capire meglio l’unicità di D., come il mio Maestro Rav Chajm Della Rocca shlita traduce l’Echad dello Shemà. Tutto quello che per noi è molteplice, prima - dopo, qui - lì, dinanzi a Lui è tutto uno.

Forse è proprio questo che intendono i Saggi nel darci l’importante regola ermeneutica per la quale ‘non cè un prima ed un dopo nella ToràPerché come abbiamo già visto nelle scorse settimane Iddio e la Torà sono una cosa sola.

Il fatto però che il Signore trascenda non significa che il mondo è abbandonato a se stesso. Al contrario Egli si ammanta con il creato. Il compito dell’uomo è proprio quello di ricongiungere queste dimensioni alla loro radice sacra. In ognuna di queste dimensioni ci sono allora dei diversi gradi di sacralità. Nello spazio la sacralità di Erez Israel, di Jerushalaim e del Santuario; nel tempo lo Shabbat e le Feste e nelle persone i Coanim ed i Giusti.

Per questo dice lo Sfat Emet, i nostri Maestri hanno insegnato che il Saggio si distingue per tre qualità: ‘conosce il suo luogo’, ‘vede le conseguenze’ ed ‘impara da ogni personaSpazio, tempo, persona.
L’ebreo è per questo legato a tempo e spazio in maniera particolare. Insegna il Talmud (Makot 23b) che le seicentotredici mizvot della Torà si dividono in trecentosessantacinque divieti - come il numero dei giorni dell’anno solare - e duecentoquarantotto precetti positivi - come le membra del corpo umano. Le mizvot ci legano al tempo ed allo spazio.

Lo Sfat Emet, nel commentare la nostra Parashà, riflette moltissimo proprio sul concetto del tikun hazman. Letteralmente aggiustare il tempo. Il criterio è che in ogni momento c’è un ‘illuminazione particolareIl metro del nostro scarso livello spirituale è proprio il fatto che siamo abituati a pensare al tempo come ad un qualcosa che scorre in totale indipendenza dal nostro operato. In realtà il giusto approccio dovrebbe partire dalla comprensione che in ogni istante ho l’opportunità di santificare il tempo utilizzandolo in maniera propria. Il modo in cui il Signore ha organizzato il tempo, con la notte ed il giorno, è per lo Sfat Emet funzionale a questo scopo. Iddio che ‘arrotola la luce per via del buio ed il buio per via della luce’ come diciamo nella preghiera di Arvit, ci ha dato la notte per separare le giornate ed insegnarci che così come ogni giorno la creazione si rinnova, così per noi c’è qualcosa di nuovo da imparare ogni giorno. Ogni giorno posso servire il Signore in un modo che non era pensabile o possibile né ieri né tanto meno domani. Ogni giorno ha la sua radice sacra. La vera sfida è non perdere questi momenti. Così come insegnano i Saggi che ciò che è irreparabile per definizione è colui che non ha detto lo Shemà alla sera o alla mattina. Quello Shemà perso, non ci sarà mai più. Ma c’è un livello ancora superiore. Spesso, anche quando abbiamo la forza e le capacità di santificare adeguatamente un momento, non siamo in grado di preservarlo. Quante volte abbiamo dei momenti di grande elevazione spirituale - una festa particolarmente sentita, una preghiera detta con particolare concentrazione, una mizvà fatta con tutta l’intenzione possibile, ma poi passata una giornata ce ne dimentichiamo. Ebbene dice il Rabbi di Gur, il modello dei patriarchi e delle matriarche è quello di non dimenticare nulla. Di procedere sì nella scalata dei momenti di giorno in giorno, ma senza mai perdere di vista quello che si è imparato ieri ed anzi usarlo come leva per servire il Signore. Questo approccio “cumulativo” è la chiave per capire il livello di Avraham e Sarà. ‘VeAvraham Zaken,’ Ed Avraham era vecchio, ‘ba bajamim - che traduciamo avanzato nei giorni - letteralmente ‘viene nei giorni o con i giorniPer lo Sfat Emet Avraham giunge in vecchiaia con i giorni, ossia si porta appresso tutte quelle scintille raccolte in ogni giorno della sua vita.

Avraham è appunto capace di accumulare tutto quanto ha imparato, ogni momento santificato, senza perdere nulla. Questo è anche il senso del primo verso della Parashà che loda gli anni di Sarà. Anche Sarà è stata capace di crescere in maniera cumulativa. Su questo verso Rashì dice che gli anni di Sarà sono stati tutti uguali in bene. Lo Sfat Emet sottolinea che non vuol dire che è stato tutto rose e fiori. Questa uguaglianza dei giorni in bene va letta secondo il Rabbi di Gur alla luce del concetto di hishstavvut - eguagliare del Chovat HaLevavot.

Avraham e Sarà hanno avuto una vita assai tribolata. Hanno sperimentato la fame, l’esilio, la spaccatura in casa, incomprensioni con i figli, incomprensioni tra coniugi fino alla prova ultima della legatura di Isacco che secondo il Midrash è causa stessa della morte di Sarà. Insomma non è stato proprio tutto una passeggiata. Spiega il Chovat HaLevavot che l’uomo è chiamato ad agire egualmente a prescindere dalle condizioni esterne. C’è una prova tanto nella povertà che nella ricchezza, ma da noi ci si aspetta un comportamento positivo al di là delle condizioni contingenti. Questo è il senso di quanto dice la Mishnà in Avot, che Avraham (e Sarà con lui) è rimasto in piedi in ogni prova (amad bekulam). È rimasto se stesso in ogni situazione.

Capiamo allora che la vecchiaia è ben altra cosa rispetto al deterioramento fisico del corpo. È piuttosto un livello superiore di avanzamento nel percorso spirituale che ognuno di noi deve compiere. È vero, è anche il periodo più prossimo al completamento della vita di questo mondo, ma proprio per questo ci avvicina al Divino. Zaken è per lo Sfat Emet scomponibile nella lettera zain che ha valore numerico sette, come i giorni della creazione e nella parola ken, nido.

Zaken, il vecchio, è colui che fa del tempo, dei sette giorni, il nido, il luogo, dell’interiorità. A questo proposito fa notare il Rabbì di Gur che ci si deve alzare in piedi tanto per il canuto che per il vecchio. Il canuto è colui che è biologicamente anziano. Il vecchio, lo si è detto è il Saggio. Tanto all’anziano che al Saggio si deve rispetto. All’anziano indipendentemente dalla saggezza, giacché il solo percorso ha già un valore intrinseco. Il Saggio a maggior ragione è colui che ha saputo santificare il percorso ad un punto tale da essere degno di rispetto a prescindere dall’età.

Mi sembra che dovremmo cercare di fare nostre queste riflessioni dello Sfat Emet, sopratutto in un epoca come le nostra, nella quale il rapporto con il tempo è così complesso. Siamo una generazione nella quale è facile essere schiavi di una frenesia che non ci lascia momenti. Ma siamo anche la generazione nella quale più che in altre alcune persone sono attanagliate dalla noia e dalla depressione. Il messaggio del Rabbi di Gur è che a prescindere da ciò che ci accade attorno dobbiamo trovare il modo di vivere pienamente ed ebraicamente i nostri momenti.

Il trattato di Makot si conclude con una straordinaria discussione tra Rabbì Akivà e gli altri Saggi dinanzi 
allo sfacelo della distruzione del Tempio. Rabbì Akivà dimostra la veridicità della profezia di Zecharià che dice ‘Siederanno ancora vecchi e vecchie per le strade di Gerusalemme ed un uomo col bastone in mano per i molti giorni, e le strade della Città si riempiranno di bambini e bambine che giocano nelle sue strade (VIII,4). E consola gli altri Maestri.

I vecchi e le vecchie, come i patriarchi e le matriarche diventano la chiave per comprendere la redenzione personale e nazionale. Giacché la gehulà passa per il bastone di un anziano, per il gioco di un bambino, nella Terra d’Israele.

Chi come noi, per motivi che solo il Padrone del Mondo conosce, ha avuto il merito di poter vedere le parole di Zecharià ogni mattina scendendo di casa a Gerusalemme, dovrebbe avere un pensiero per questo gigante di Israele che le ha sapute vedere nelle macerie del Santuario, che presto sarà ricostruito. Mentre i vecchi continueranno a sedere col bastone ed insegnare Torà ai bambini che giocano, come avviene anche oggi nei giardini di Jerushalaim.

Perché non si interrompe lo studio dei bambini nemmeno per la costruzione del Bet Hamikdash.
Shabbat Shalom