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giovedì 1 ottobre 2009

Succot 5770

Il Talmud, nel trattato di Bavà Mezià (97a), discute del risarcimento per un oggetto preso in prestito o in affitto, che viene perso. Uno dei principi generali è che non c’è risarcimento qualora il padrone dell’oggetto sia presente (almeno parzialmente). Dall’esegesi del verso fonte (Esodo XXII,14), la Mishnà ricava che se il legittimo proprietario sta lavorando per chi ha preso l’oggetto, questi è sempre considerato come se fosse presente e quindi non c’è risarcimento.

La Ghemarà estende il principio a tutte quelle professioni che all’epoca del Talmud non erano pagate direttamente ma ricevevano uno stipendio dalla cassa comunitaria tra cui il Maestro dei bambini, l’agronomo, lo shochet, chi praticava i salassi ed il barbiere. Come vanno considerati? Secondo Rashì (e così anche Rambam e Ritva) nel momento in cui stanno servendo un cliente, vengono considerati come lavoratori presso di lui, per cui se questi prende da loro in prestito un oggetto in quel momento, è considerato “alla presenza del padrone” e non c’è risarcimento. Secondo molti altri Rishonim invece, questi sono sempre considerati al servizio di tutti e quindi non c’è mai risarcimento.

La domanda è allora che succede nel caso di un Maestro che non riceve alcun compenso.

È su questa domanda che si scatena un interessante (ed interessata) diatriba tra Rava ed i suoi discepoli, i Saggi della Yeshivà. I discepoli sostengono che il Maestro “lavora” per gli studenti e che quindi se questi prendono un oggetto in prestito sono esenti da eventuale risarcimento. Rava stizzito (e forse preoccupato che questi si volessero approfittare della sua ricchezza) risponde che è vero il contrario: sono gli studenti che “lavorano” presso il Maestro e questo per via del fatto che è il Maestro che sceglie il tema della lezione e può passare da un argomento all’altro o da un trattato all’altro a sua completa discrezione. Da qui quindi è Rava ad essere eventualmente esente dal pagare un risarcimento.

La Ghemarà, come spesso accade, da ragione ad entrambi: in senso generale Rava ha ragione, è il Maestro ad avere l’autorità. Questo però non è vero per il “Yomà DeCallà” (o come li chiamiamo noi Yarchè Callà), quelle lezioni che precedono ed accompagnano le feste. In occasione delle feste il Maestro non può scegliere il tema: è obbligato, da una regola istituita da Moshè nostro Maestro, ad insegnare le regole della festa in questione. In questo caso egli ‘lavora’ per gli studenti.

È chiaro che qui non si sta parlando solo di un eventuale risarcimento. Ad un livello più profondo la discussione tra Rava ed i suoi alunni è sulla natura del rapporto stesso tra Maestro ed alunno. Secondo la Ghemarà la discriminante è la facoltà di poter scegliere il tema della lezione.

L’autorità del Maestro deriva dunque dal suo diritto (ma anche dal suo dovere) di scegliere il percorso didattico che ritiene opportuno. C’è però un momento nel quale è la Torà stessa che sceglie per tutti, anche per il Maestro, il percorso didattico: il percorso delle feste. In questo momento sembrerebbe che l’autorità del Maestro venga meno (con tutte le conseguenze halachiche di cui sopra).

A mia modesta opinione sembra assolutamente affascinante che proprio in questo preciso momento compare un obbligo che ridefinisce il rapporto Maestro-Alunno. Insegna infatti Rabbì Izchak nel trattato di Rosh Hashanà (16b) che ognuno è tenuto a far visita al proprio Maestro durante le feste. Questo si impara dal fatto che il marito della donna Shunnamita (Re II,23) si stupisce del fatto che la moglie vada a trovare il profeta Eliseo pur essendo il giorno feriale: sarebbe stata quindi cosa normale di festa.

Nel momento stesso in cui l’autorità del Maestro è minata perché lui non può scegliere, noi dobbiamo andare da lui. Ossia nel momento in cui noi siamo statutoriamente ‘padroni’ dei nostri Maestri dobbiamo mostrare loro rispetto. Dobbiamo cercarli. Le feste sono anche momenti nei quali i Maestri sono oberati dalle esigenze delle loro Comunità. Sono forse proprio quei momenti in cui il pubblico si sente padrone e si aspetta un servizio (...a che ora suona lo Shofar?) È in questi momenti che abbiamo l’obbligo di andare dal Maestro, a risanare questo rapporto, ad ascoltare ciò che il Maestro è obbligato a dirci ed a ricordare che negli altri giorni è lui che sceglie.

E se è vero che nelle feste noi dobbiamo andare dal Maestro è altrettanto vero che dobbiamo fare posto al Maestro in casa nostra per il resto dell’anno. ‘Sia la tua casa un ritrovo per i Chachamim’ dice la Mishnà nel trattato di Avot.

È questo che avviene anche con la Shunnamita nel brano che noi leggiamo come Aftarà per la parashà di Vajerà. Prima ancora che lei andasse da Eliseo, aveva preso l’iniziativa di preparare una stanza per ospitare il profeta che visitava frequentemente Shunnem. E questo è anche il tema della relativa parashà di Vajerà che si apre con Avraham e la sua ospitalità agli gli angeli, ma anche della visita che Iddio stesso fa ad Avraham malato. Avraham sa accogliere, ma sa anche correre incontro.

Andare a trovare e ricevere, andare a vedere ed essere visti è una delle principali chiavi di lettura per il precetto del pellegrinaggio delle Tre Feste. Si va a vedere il Santuario e si viene visti dalla Presenza Divina.

Mi sembra che questi concetti trovino una particolare dimensione nella festa di Succot che è centrata sul concetto dell’incontro, del far visita e ricevere ospiti. In effetti la Succà si trova proprio nel crocevia di questo processo. Noi usciamo dalle nostre case andando incontro alla mizvà ed apriamo le nostre Succot al prossimo. Succot è il momento in cui riceviamo la visita dei Sette Ushpizin, i Sette ospiti, primo tra i quali Avraham che riceviamo proprio la sera in cui è mizvà mangiare in Succà. In questo equilibrio tra il dentro e fuori, tra andare a trovare e ricevere, la Succà diviene uno spazio sacro che risana il nostro rapporto con il prossimo, a cominciare dal Maestro, ma anche il nostro rapporto con la materialità.

La mizvà della Succà è definita come una mizvà che non ha ‘chesron kis’, con la quale non si perde niente, perché bastano pochi rami per farla. Al contempo si deve stare attenti a non costruirla con materiale rubato e così anche il lulav rubato non è valido. Il tema del danno al prossimo con cui abbiamo aperto.

Mi sembra che è proprio in questa chiave che dovremmo leggere i famosi tre punti che sottolineava Hillel Hazaken nel corso delle celebrazioni di Succot, la simchat Bet Hasoevà, nel Santuario.

· Se Io sono qui, tutto è qui.

· Nel Luogo che io amo, lì i miei piedi mi portano.

· Se tu verrai a Casa mia, Io verro a casa tua. Se tu non verrai a Casa mia, Io non verrò a casa tua.

Esistono varie letture per questa serie di insegnamenti secondo alcuni è D. che parla, secondo altri l’uomo stesso. In ogni modo la prima frase implica la consapevolezza di se, del proprio ruolo e del proprio luogo. La seconda che il vero amore si dimostra con lo spostarsi dalla propria posizione per andare nel luogo che si ama. La terza che esiste un principio di reciprocità.

Ed allora ciò è vero sia che il soggetto sia l’uomo, che Iddio benedetto.

Succot viene ad insegnarci che se vogliamo un rapporto dobbiamo trovare dei luoghi e dei tempi di incontro. Che se vogliamo un Maestro non possiamo solo andarlo a trovare una volta l’anno quando ci è facile presentarci al Tempio per pochi minuti, ma dobbiamo fare spazio nel nostro quotidiano, nelle nostre case per il suo insegnamento.

E che se vogliamo un rapporto con il Signore questo non si può basare solo su quello che noi ci aspettiamo da Lui quanto piuttosto da quello che Lui si aspetta da noi.

Shabbat Shalom e Moadim LeSimchà

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