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giovedì 8 ottobre 2009

Sheminì Azzeret 5770

Con la festa di Sheminì Azzeret, completeremo a D. piacendo questo Shabbat il ciclo delle feste del mese di Tishrì che abbiamo iniziato cinquantadue giorni prima con Rosh Chodesh Elul. Abbiamo più volte ricordato come la caratteristica di questa giornata sia proprio l'assenza di ogni cenno storico o mizvà particolare. Al culmine del processo spirituale che abbiamo fatto in queste settimane giungiamo ad un livello nel quale non c'è bisogno di nessun motivo per cercare la gioia della vicinanza al Signore. Abbiamo anche più volte ricordato che è proprio questo momento di apparente "vuoto" che Israel decide di riempire festeggiando il completamento del ciclo annuale dello studio della Torà.

C'è però un altro aspetto che caratterizza la liturgia di questa giornata: il tikun hagheshem. Dal Musaf di Sheminì Azzeret infatti iniziamo a ricordare nelle preghiere che è il Signore che manda la pioggia. Entriamo dunque nel periodo invernale. La pioggia è fondamentale per la vita del mondo vegetale ed è indispensabile per lo sviluppo dell'agricoltura. La pioggia diviene quindi il simbolo stesso del sostentamento: in ebraico la radice gheshem forma anche la parolagashminut, materialità. La pioggia è il fondamento della materialità.

Questo è in effetti anche il momento in cui torniamo alla materialità. Dopo quasi due mesi di percorso stiamo per tornare al quotidiano con i suoi problemi e le sue necessità. La festa di Sheminì Azzeret e la corrispettiva gioia della Torà, la Simchat Torà, sono allora il trampolino per affrontare in maniera corretta il periodo invernale. Il primo punto è chiaro: la pioggia, la materialità, viene anch'essa dal Signore. L'ebraismo rifugge la dicotomia tra materia e spirito: il compito di Israele è proprio quello di mettere assieme materia e spirito al servizio del Signore.

Sebbene tutta la festa di Succot sia centrata sul concetto dell'acqua - basti pensare che durante Succot veniva offerta dell'acqua sull'Altare per propiziare le piogge - è solo con la fine di Succot che iniziamo a ricordare la pioggia nelle preghiere. Di Succot infatti la pioggia ci impedirebbe di adempiere alla mizvà della Succà. Ma anche dopo Succot ci limitiamo per il momento a ricordare la pioggia, non a chiederla. Infatti attenderemo altri quindici giorni per esser certi che l'ultimo dei pellegrini giunti a Jerushalaim sia tornato a casa propria in Babilonia, per evitare quindi che le piogge complicassero il percorso dei pellegrini. La pioggia infatti, seppur benefica, è un bel problema per chi si trova fuori di casa, in viaggio. Il Talmud, nel trattato di Bavà Mezià (101b) ricorda che nel periodo invernale è estremamente difficile trovare una casa da affittare. Tutti vogliono un riparo e si preoccupano per tempo. Per questo motivo non si può sfrattare un inquilino da Succot fino a Pesach. Perché non troverebbe un altra casa da affittare. Il periodo invernale diviene allora anche una sorta di zona protetta. Fuori piove, si deve provvedere ad una protezione. In questa visione, dopo aver esplorato il concetto della precarietà con delle succot nelle quali deve filtrare acqua se piove, veniamo ora chiamati a preoccuparci di restare all'asciutto. Veniamo chiamati a crearci delle tevot Noach, delle Arche di Noè spirtuali nelle quali difenderci nei mesi invernali.

Questo rapporto tra la pioggia e la casa è anche la chiave della breve preghiera che il Sommo Sacerdote recitava nel Santissimo nel giorno di Kippur. Esistono diverse tradizioni basate sul Bavlì, lo Jerushalmi ed altre fonti (e così anche diverse rappresentazioni nei diversi riti nei rispettivi Seder Avodà) ma in ogni modo nel momento più importante dell'anno, nel luogo più importante sulla terra, la persona più importante d'Israele chiedeva:

· che se l'anno sarà caldo, sia anche piovoso.

· che non si allontani il potere dalla Casa di Jeudà

· che ognuno abbia alimenti in abbondanza

· che non venga accolta la preghiera dei viandanti che chiedono che non piova.

Poi faceva anche una preghiera specifica per gli abitanti della pianura dello Sharon: che le loro case non diventino le loro tombe.

Il Rambam nel suo commento alla Mishnà spiega che il Coen Hagadol faceva prima delle richieste generali: un clima mite che giovi a tutti ed un buon governo e poi passava alle necessità dell'individuo, il sostentamento e la pioggia. Perché la casa prosperi, ci vuole la pioggia. Chi è fuori casa, prega perché non ci sia pioggia e non deve essere ascoltato. Al contempo gli altri devo evitare di chiedere la pioggia, fintanto che questi non arriva a casa.

Ma forse la preghiera più curiosa ed affascinante è quella sugli abitanti dello Sharon. La pianura dello Sharon era frequentemente soggetta ad inondazioni e le case di fango spesso si trasformavano in trappole mortali. Dinanzi alla recenti disgrazie naturali in tutto il mondo ed anche in Italia possiamo forse apprezzare meglio la preghiera del Sommo Sacerdote. Ci sono però anche delle letture più profonde. La pioggia è indispensabile, la materialità è fondamentale ma può essere anche pericolosa. In alcuni casi rende difficile il viaggio del pellegrino trasformando le strade in pantani, ma in casi limite porta calamità e distruzione. All'epoca del Secondo Tempio esisteva anche una fondamentale differenza demografica tra le diverse zone di Erez Israel. La zona attorno a Jerushalaim era popolata da Chaverim, da persone osservanti che erano attente alle regole della purità. Oltre Modiin, si supponeva che le persone fossero ammè haaretz, ignoranti. Lo Sharon, in questa visione, sarebbe simbolico per coloro meno attenti alle mizvot. Il rischio è che la materialità a cui questi sono più legati diventi un boomerang e che le loro case diventino spiritualmente delle tombe.

La materia che è strumento di mizvà, può facilmente diventare inciampo nel percorso o addirittura crollarci addosso. Sta a noi fare della strada un percorso di Torà nel quale procedere secondo il giusto passo, la giusta Halachà. Sta a noi fare delle nostre case dei ripari pieni di Torà e di opere di bene impermeabili a quanto di negativo avviene fuori.

Vorrei allora provare ad azzardare una lettura allegorica della nostra Mishnà.

La stessa Mishnà di Bavà Mezià ci insegna che esistono dei cicli che vanno oltre le stagioni: i negozi vengono infatti affittati per dodici mesi. Il motivo è secondo Rashì in loco il fatto che il commerciante ha un giro: delle uscite che rientreranno con il tempo. In ebraico hachenvanì mekif hakafot. Il negoziante fa delle hakafot. È per rispetto all'esigenza del ciclo economico del negoziante che questi ha dodici mesi. Altrimenti non potrebbe compiere il suo ciclo.

In questi giorni di hakafot nei quali prima compiamo i giri attorno alla tevà con il lulav e poi con la Torà stessa a Simchà Torà è curioso trovare questo stesso termine. Ebbene la hakafà è quindi anche un ciclo, un processo e non solo un giro fisico attorno ad un oggetto. Ed allora se il ciclo commerciale è di dodici mesi anche il ciclo della professione per eccellenza del popolo d'Israele, lo studio della Torà, è di dodici mesi. Nella preghiera che si recita per lo studio di un trattato Talmudico si chiede infatti che la Torà sia la nostra professione. Non si tratta qui di scartare il lavoro vero: più volte abbiamo fortemente ripudiato l'idea di alcuni che oggi si fanno scudo della Torà per non lavorare! Piuttosto i Saggi intendono che lo studio andrebbe affrontato con la stessa serietà con cui si affrontano i propri affari: una professione.

D'altro canto si deve sapere che lo studio è un processo. Come per l'economia di una attività esistono diverse stagioni: momenti di investimento e momenti di raccolta e via dicendo. Ci sono momenti per rafforzarsi quantitativamente e momenti per privilegiare la qualità.

La nostra Mishnà si conclude curiosamente con l'opinione di Rabban Shimon ben Gamliel secondo il quale i forni del pane e le tintorie sono delle eccezioni e hanno diritto a tre anni di preavviso prima dello sfratto. Il motivo secondo la Ghemarà è che hekefan merubè. Hanno un giro grande. Rashì spiega che queste attività hanno un ciclo del denaro più lungo. Il Meiri spiega invece che sono queste delle attività difficilmente trasportabili perché necessitano di spazio per i forni e sorgenti d'acqua per le macine. L'hekef merubè sarebbe la difficoltà di trasporto.

È curioso che anche per la Torà esiste un ciclo di tre anni. Il ciclo di dodici mesi che noi utilizziamo era originariamente usato dalle Comunità babilonesi. In Erez Israel (e secondo alcuni così si faceva in epoca antichissima anche a Roma) si completava il ciclo della lettura della Torà in tre anni. Anche se quest'uso è ormai scomparso, l'idea è che anche se noi siamo generalmente portati a pensare che tutto vada di anno in anno, in realtà esistono anche dei cicli più lunghi. Hekefan merubè. Ci sono dei percorsi nello studio della Torà più lunghi del "nostro" ciclo annuale. Pensiamo al Daf Yomì, al ciclo con il quale si studia il Talmud intero in sette anni. Pensiamo a quanto dicono i Maestri che ci sono cose il cui senso profondo lo si capisce solo dopo quaranta anni di studio. Questo ci deve portare a capire l'importanza delle nostre azioni e del nostro studio. Ciò che noi pianteremo in questo inverno, avrà ripercussioni non solo nelle prossime stagioni e nemmeno solo in quest'anno. L'eco di una mizvà è infinito.

Nel preparaci alle hakafot pensiamo allora che ci sono delle hakafot ben più lunghi delle nostre e che se noi facciamo un piccolo percorso nei nostri Batè Keneset è perchè c'è un percorso più lungo che lega tutta la storia d'Israele, tutta l'esperienza ebraica, fino a quando presto e ai nostri giorni torneremo a fare la più grande delle hakafot attorno a tutti i nuovi quartieri di Jerushalaim per Santificare tutta la Città attorno al Santuario ricostruito.

Shabbat Shalom e Moadim leSimchà.

giovedì 1 ottobre 2009

Succot 5770

Il Talmud, nel trattato di Bavà Mezià (97a), discute del risarcimento per un oggetto preso in prestito o in affitto, che viene perso. Uno dei principi generali è che non c’è risarcimento qualora il padrone dell’oggetto sia presente (almeno parzialmente). Dall’esegesi del verso fonte (Esodo XXII,14), la Mishnà ricava che se il legittimo proprietario sta lavorando per chi ha preso l’oggetto, questi è sempre considerato come se fosse presente e quindi non c’è risarcimento.

La Ghemarà estende il principio a tutte quelle professioni che all’epoca del Talmud non erano pagate direttamente ma ricevevano uno stipendio dalla cassa comunitaria tra cui il Maestro dei bambini, l’agronomo, lo shochet, chi praticava i salassi ed il barbiere. Come vanno considerati? Secondo Rashì (e così anche Rambam e Ritva) nel momento in cui stanno servendo un cliente, vengono considerati come lavoratori presso di lui, per cui se questi prende da loro in prestito un oggetto in quel momento, è considerato “alla presenza del padrone” e non c’è risarcimento. Secondo molti altri Rishonim invece, questi sono sempre considerati al servizio di tutti e quindi non c’è mai risarcimento.

La domanda è allora che succede nel caso di un Maestro che non riceve alcun compenso.

È su questa domanda che si scatena un interessante (ed interessata) diatriba tra Rava ed i suoi discepoli, i Saggi della Yeshivà. I discepoli sostengono che il Maestro “lavora” per gli studenti e che quindi se questi prendono un oggetto in prestito sono esenti da eventuale risarcimento. Rava stizzito (e forse preoccupato che questi si volessero approfittare della sua ricchezza) risponde che è vero il contrario: sono gli studenti che “lavorano” presso il Maestro e questo per via del fatto che è il Maestro che sceglie il tema della lezione e può passare da un argomento all’altro o da un trattato all’altro a sua completa discrezione. Da qui quindi è Rava ad essere eventualmente esente dal pagare un risarcimento.

La Ghemarà, come spesso accade, da ragione ad entrambi: in senso generale Rava ha ragione, è il Maestro ad avere l’autorità. Questo però non è vero per il “Yomà DeCallà” (o come li chiamiamo noi Yarchè Callà), quelle lezioni che precedono ed accompagnano le feste. In occasione delle feste il Maestro non può scegliere il tema: è obbligato, da una regola istituita da Moshè nostro Maestro, ad insegnare le regole della festa in questione. In questo caso egli ‘lavora’ per gli studenti.

È chiaro che qui non si sta parlando solo di un eventuale risarcimento. Ad un livello più profondo la discussione tra Rava ed i suoi alunni è sulla natura del rapporto stesso tra Maestro ed alunno. Secondo la Ghemarà la discriminante è la facoltà di poter scegliere il tema della lezione.

L’autorità del Maestro deriva dunque dal suo diritto (ma anche dal suo dovere) di scegliere il percorso didattico che ritiene opportuno. C’è però un momento nel quale è la Torà stessa che sceglie per tutti, anche per il Maestro, il percorso didattico: il percorso delle feste. In questo momento sembrerebbe che l’autorità del Maestro venga meno (con tutte le conseguenze halachiche di cui sopra).

A mia modesta opinione sembra assolutamente affascinante che proprio in questo preciso momento compare un obbligo che ridefinisce il rapporto Maestro-Alunno. Insegna infatti Rabbì Izchak nel trattato di Rosh Hashanà (16b) che ognuno è tenuto a far visita al proprio Maestro durante le feste. Questo si impara dal fatto che il marito della donna Shunnamita (Re II,23) si stupisce del fatto che la moglie vada a trovare il profeta Eliseo pur essendo il giorno feriale: sarebbe stata quindi cosa normale di festa.

Nel momento stesso in cui l’autorità del Maestro è minata perché lui non può scegliere, noi dobbiamo andare da lui. Ossia nel momento in cui noi siamo statutoriamente ‘padroni’ dei nostri Maestri dobbiamo mostrare loro rispetto. Dobbiamo cercarli. Le feste sono anche momenti nei quali i Maestri sono oberati dalle esigenze delle loro Comunità. Sono forse proprio quei momenti in cui il pubblico si sente padrone e si aspetta un servizio (...a che ora suona lo Shofar?) È in questi momenti che abbiamo l’obbligo di andare dal Maestro, a risanare questo rapporto, ad ascoltare ciò che il Maestro è obbligato a dirci ed a ricordare che negli altri giorni è lui che sceglie.

E se è vero che nelle feste noi dobbiamo andare dal Maestro è altrettanto vero che dobbiamo fare posto al Maestro in casa nostra per il resto dell’anno. ‘Sia la tua casa un ritrovo per i Chachamim’ dice la Mishnà nel trattato di Avot.

È questo che avviene anche con la Shunnamita nel brano che noi leggiamo come Aftarà per la parashà di Vajerà. Prima ancora che lei andasse da Eliseo, aveva preso l’iniziativa di preparare una stanza per ospitare il profeta che visitava frequentemente Shunnem. E questo è anche il tema della relativa parashà di Vajerà che si apre con Avraham e la sua ospitalità agli gli angeli, ma anche della visita che Iddio stesso fa ad Avraham malato. Avraham sa accogliere, ma sa anche correre incontro.

Andare a trovare e ricevere, andare a vedere ed essere visti è una delle principali chiavi di lettura per il precetto del pellegrinaggio delle Tre Feste. Si va a vedere il Santuario e si viene visti dalla Presenza Divina.

Mi sembra che questi concetti trovino una particolare dimensione nella festa di Succot che è centrata sul concetto dell’incontro, del far visita e ricevere ospiti. In effetti la Succà si trova proprio nel crocevia di questo processo. Noi usciamo dalle nostre case andando incontro alla mizvà ed apriamo le nostre Succot al prossimo. Succot è il momento in cui riceviamo la visita dei Sette Ushpizin, i Sette ospiti, primo tra i quali Avraham che riceviamo proprio la sera in cui è mizvà mangiare in Succà. In questo equilibrio tra il dentro e fuori, tra andare a trovare e ricevere, la Succà diviene uno spazio sacro che risana il nostro rapporto con il prossimo, a cominciare dal Maestro, ma anche il nostro rapporto con la materialità.

La mizvà della Succà è definita come una mizvà che non ha ‘chesron kis’, con la quale non si perde niente, perché bastano pochi rami per farla. Al contempo si deve stare attenti a non costruirla con materiale rubato e così anche il lulav rubato non è valido. Il tema del danno al prossimo con cui abbiamo aperto.

Mi sembra che è proprio in questa chiave che dovremmo leggere i famosi tre punti che sottolineava Hillel Hazaken nel corso delle celebrazioni di Succot, la simchat Bet Hasoevà, nel Santuario.

· Se Io sono qui, tutto è qui.

· Nel Luogo che io amo, lì i miei piedi mi portano.

· Se tu verrai a Casa mia, Io verro a casa tua. Se tu non verrai a Casa mia, Io non verrò a casa tua.

Esistono varie letture per questa serie di insegnamenti secondo alcuni è D. che parla, secondo altri l’uomo stesso. In ogni modo la prima frase implica la consapevolezza di se, del proprio ruolo e del proprio luogo. La seconda che il vero amore si dimostra con lo spostarsi dalla propria posizione per andare nel luogo che si ama. La terza che esiste un principio di reciprocità.

Ed allora ciò è vero sia che il soggetto sia l’uomo, che Iddio benedetto.

Succot viene ad insegnarci che se vogliamo un rapporto dobbiamo trovare dei luoghi e dei tempi di incontro. Che se vogliamo un Maestro non possiamo solo andarlo a trovare una volta l’anno quando ci è facile presentarci al Tempio per pochi minuti, ma dobbiamo fare spazio nel nostro quotidiano, nelle nostre case per il suo insegnamento.

E che se vogliamo un rapporto con il Signore questo non si può basare solo su quello che noi ci aspettiamo da Lui quanto piuttosto da quello che Lui si aspetta da noi.

Shabbat Shalom e Moadim LeSimchà

lunedì 14 settembre 2009

Rosh Hashanà 5770

Nella Aftarà che abbiamo letto questo Shabbat, il Profeta invita a cercare il Signore quando Egli è vicino, espressione che i Saggi hanno inteso come allusione ai dieci giorni che vanno da Rosh Hashanà al giorno di Kippur.

Lo Sfat Emet, elaborando alcune riflessioni di suo nonno, il Chidushè HaRim, propone un interessante matrice (in base tre) che può aiutarci a capire l'opportunità incredibile che si cela per tutti noi in queste sante giornate.

Secondo lo Sfat Emet gli aseret yemè teshuvà, i dieci giorni di ritorno corrispondono alle dieci maamarot (le dieci espressioni con le quali il Signore ha creato il mondo) ed alle dieci dibberot (le dieci parlate della rivelazione sinaitica). Così anche le dieci maamarot e le dieci dibberot sono legate alle dieci makot , le dieci piaghe con le quali il Signore ha colpito l'Egitto, secondo un insegnamento del Chidushè Harim per il quale le piaghe trasformano le espressioni della creazione nelle parlate della rivelazione sul Sinai.

Lo stesso schema si trova, secondo lo Sfat Emet, nelle tre benedizioni del Musaf di Rosh Hashanà: malkuiot (regalità), zicronot (ricordo) e shofarot (shofar). La radice della regalità Divina è infatti nelle maamarot della creazione. Le piaghe sono invece relative alla specifica esperienza storica e spirituale d'Israele ed al suo rapporto con il Signore. Il ricordo come canale di comunicazione reciproca e quindi di comunione tra D. ed Israele è l'elemento che fa scaturire la redenzione di cui le piaghe sono strumento. Infine il dono della Torà sul Sinai con le dieci dibberot, avviene per mezzo del suono dello shofar che fonde assieme i concetti di malkuiot e zicronot, portandoci ad accettare su di noi il Regno del Signore, sulla base di un rapporto intimo segnato dal ricordo reciproco, basato sulla Torà che è data per mezzo del suono dello Shofar.

Il Maestro di Gur prosegue dicendo che anche la struttura del suono dello shofar segue lo stesso schema. Secondo la Torà la mizvà del giorno di Rosh Hashanà è ascoltare una teruà, preceduta e seguita da una tekià. La tekià è un suono liscio, laddove la teruà è un suono tremolante. Dunque: Tekià, Teruà ,Tekià. Nel corso dei secoli i nostri Maestri sono stati discordi sulla esatta natura della Teruà e per uscire da ogni dubbio hanno introdotto l'uso di due suoni di teruà. Quello che noi chiamiamo teruà e quello che noi chiamiamo shevarim. Conseguentemente noi suoniamo le tre possibili combinazioni, ma resta il fatto che lo schema della Torà è: Tekià, Shevarim-Teruà, Tekià. Suono liscio, suono tremolante (qualunque esso sia), suono liscio.

La regalità di D. che si esprime nella creazione è simile alla prima tekià. E' l'opera perfetta (liscia) della Mano del Creatore. L'esilio con le piaghe ed il conseguente ricordo è il momento di crisi simboleggiato dalla teruà (e da shevarim). Si deve però sapere che attraverso il superamento della crisi si torna allo stato di tekià con il dono della Torà.

Anche l'esperienza dei nostri padri va inserita in questo schema per il Rebbe di Gur: Avraham è legato alla regalità (ed alla prima Tekià, ed alla Creazione) perché è il primo che incorona il Signore come Re sul creato. Il mondo è creato behibaream , acronimo di Avraham. Avraham da senso al creato. Izchak è colui che sperimenta in prima persona la crisi. La sua legatura è oggetto perenne del ricordo che definisce il nostro rapporto con D. ed è proprio questo ricordo che noi invochiamo ripetutamente a Rosh Hashanà. Il suono della Teruà, che caratterizza la giornata è proprio il suono della legatura che prende forma nel corno nel montone offerto in sua vece. Non è certo un caso che la schiavitù d'Egitto viene fatta iniziare dal Midrash con la nascita di Izchak. Infine Jacov, ish tam joshev ohalim, l'integro che risiede nelle Tende della Torà. Jacov è il simbolo stesso della Torà è tam - integro - semplice come una tekià. Jacov è colui la cui discendenza tutta è parte del patto con il Signore. Jacov è la Torà. Ed è proprio attraverso la Torà di Jacov (che è sintesi di Avraham ed Izchak) che la regalità ed il ricordo si fondono nel suono dello Shofar. Il volto di Jacov è scolpito sul trono Divino secondo il Midrash. Jacov è la capacità di risollevarsi dopo la crisi, la tekià che viene dopo la teruà. Ed è forse per questo che quando la Torà ci parla del processo di teshuvà il ricordo di Jacov precede quello degli altri padri: e ricorderò il mio patto con Jacov.

I nostri Mistici hanno lungamente approfondito questi schemi, e mi piace ricordare che il rapporto tra le note dello Shofar ed i patriarchi compare anche nel testo delle kavvanot, le intenzioni, in uso nella Comunità di Roma, con il quale il tokea (colui che suona lo shofar) si prepara prima di suonare.

Il percorso che noi affrontiamo in questi giorni verte proprio su questo schema. L'uomo viene creato integro ma nel corso della sua vita ha dei momenti di crisi di cui la trasgressione è solo la punta dell'iceberg. La frattura interna che ognuno di noi ha è questa teruà. Ebbene si deve sapere che così come questa è preceduta dalla tekià, è anche seguita dalla tekià. La teruà di Rosh Hashanà è lo strumento che abbiamo per tornare allo stato liscio, perfetto. Rosh Hashanà verte sulla possibilità che ognuno di noi ha di cambiare. Di riscattarsi ed al contempo di tornare alla propria radice.

Rav Mordechai Elon shlita, ricorda spesso che shever in ebraico significa tanto frazione quanto frumento. La crisi è il momento in cui le opportunità escono fuori. E' il momento per migliorarci. Rav Kuk zz'l scrive in Orot che quando c'è la guerra nel mondo, si sveglia la forza del Mashiach.

Sempre lo Sfat Emet propone un altra interessante riflessione. Secondo i nostri Maestri a Rosh Hashanà è di fatto cessata la schiavitù in Egitto. Ossia anche se siamo usciti fisicamente a Pesach è dal Rosh Hashanà precedente che abbiamo smesso di lavorare. In questo senso spiega il Rebbe di Gur si deve ricordare quanto dice il Radak per il quale il senso del suono dello Shofar è quello di annunciare la libertà, così come per il giubileo.

In questa stupenda sovrapposizione tra il due momenti dell'anno, Tishrì e Nissan, lo shofar viene ad annunciare la redenzione nazionale ma anche la libertà personale.

A Rosh Hashanà Josef è uscito di prigione. A Rosh Hashanà le nostre madri hanno smesso di essere sterili. Rosh Hashanà è il momento in cui tutto può cambiare.

Secondo la tradizione uno dei motivi dello Shofar è quello di confondere il Satan, l'accusatore. Sentendo lo Shofar questi teme che sia giunta la redenzione che verrà annunciata con il grande Shofar. Lo Shofar riccorda allora al Satan, ma anche a quel pezzo di istinto del male che è in ognuno di noi, che ciò è possibile. Il grande shofar arriverà, il cambiamento ci sarà.

Sta a noi fare del nostro Shofar un grande Shofar e stabilire la alachà secondo Rabbì Eliezer per il quale 'A Nissan sono stati redenti, a Tishrì saranno redenti.'.

Shabbat Shalom e Shanà Tovà


domenica 24 maggio 2009

La santità del percorso

Oggi, Rosh Chodesh Sivan, è il giorno nel quale entriamo nel deserto del Sinai e ci prepariamo a ricevere la Torà. Abbiamo davanti a noi gli ultimi giorni di quel conto - la Sefitat HaOmer - che ci conduce da Pesach a Shavuot.

Rav Mordechai Elon shlita, sottolinea come esistano due tipi di sefirot - di conti, entrambi esposti nel libro di Vajkrà che abbiamo appena completato. Il primo gruppo è legato al conto dei giorni del processo di purificazione. L'unico esempio che abbiamo al giorno d'oggi è la purificazione della donna dopo il suo ciclo (o dopo il parto). Quando esisteva il Santuario però c'erano altre persone impure il cui processo di purificazione implicava il conto di un determinato numero di giorni. In questi casi il conto è strumentale. Non esiste il precetto di contare: la donna deve sapere in che giorno si trova dei suoi shivà nekiim, i sette giorni puliti, ma non è tenuta a contare espressamente ne tanto meno a benedire. Non c'è mizvà di contare. C'è la mizvà di purificarsi e questo non è possibile senza che passino sette giorni.

Al contrario esistono due tipi di conto di mizvà: il conto dell'omer appunto, ed il conto degli anni del ciclo giubilare. Nel primo caso la mizvà è individuale, nel secondo è collettiva e viene adempiuta dal Tribunale.

Il percorso che ci apprestiamo a completare in questi giorni è allora un percorso di mizvà. Non è un passaggio strumentale. I quarantanove giorni dell'Omer non sono una sala d'attesa nella quale aspettiamo. Sono un percorso nel quale cresciamo ed attraverso il quale ci avviciniamo alla Torà. In questo senso spiega Rav Elon, il conto dell'Omer è assolutamente in controtendenza rispetto alla nostra società del risultato, qui ed adesso. La sefirat haOmer, ci insegna l'importanza del percorso. Noi siamo abituati a pensare che ciò che conta è il risultato. Il contare i giorni dell'Omer ci insegna che la strada non è meno importante. Non è mezzo, ma fine anche essa.

Così è appunto per lo studio della Torà. Non conta quanto abbiamo appreso, non importa quanto abbiamo capito: conta quanto ci siamo sforzati. La strada conta più del luogo nel quale si è diretti.

Capiamo allora quanto dicono i nostri Saggi, che il ruolo della strada è quello di studiarvici Torà.
E' sì un chiaro riferimento alle parole dello Shemà, ma è anche un profondo insegnamento sul fatto che la Torà e la strada necessitano la comprensione dell'importanza del percorso. Ed è per questo che la richiesta di Moshè di posticipare il dono della Torà di un giorno - per completare il percorso - viene accolta. Perché il percorso verso la Torà equivale alla Torà stessa.





martedì 21 aprile 2009

In equilibrio sulla sottile linea della santità

Dopo averci dato le regole della kasherut, dei cibi permessi e quelli proibiti, degli animali puri e quelli impuri, la Torà si occupa nella nostra doppia Parashà di Tazria-Mezorà della purità ed impurità dell'uomo. Di particolare interesse è l'impurità relativa alla zaraat, malattia della pelle che secondo i nostri Maestri colpisce come punizione per la maldicenza.

Uno dei più grandi Maestri del Mussar, Rabbì Israel Salant, spiega che la prossimità tra le regole della kasherut e quelle della zaraat, viene proprio a rimproverarci il fatto che mentre la maggior parte delle persone è attenta alle regole della kasherut controllando ogni cosa "settantasette volte", pochi stanno attenti a non disprezzare il prossimo ed anzi lo 'masticano ed ingoiano vivo'.

Questo forte richiamo alla coerenza è particolarmente importante dopo i 'rigori alimentari' della festa di Pesach. I rigori vanno bene purché siano genuini e ragionevolmente distribuiti sui vari precetti della Torà. Non va bene quando si è estremamente rigorosi su una cosa, per poi trascurare completamente un altra mizvà.

L'abuso della parola, di cui la nostra generazione è maestra, è un problema enorme. La Torà regola la parola non meno di quanto faccia per il cibo. Curioso poi, dice Rav Mordechai Elon shlita, che spesso, troppo spesso, il rigore è legato proprio a mancanze nei rapporti orizzontali. Ed allora non cerco la certificazione più rigorosa di un prodotto in quanto tale, ma perché 'quell'altra -la tua- non va bene.'

Proprio la cerimonia di purificazione dalla zaraat, offre un interessante approccio su come si sana questa situazione. Tra tutti coloro che si purificano dai diversi tipi di impurità, colui che si purifica dalla zaraat, stride per la collocazione geografica della sua cerimonia. E' infatti l'unico che ha il permesso di stare presso la porta di Nikanor, la porta che separa il cortile interno, la azarà, da quello esterno l'ezrat nashim che ha un minore grado di santità. Nel corso della cerimonia questi deve allungare mani e piedi all'interno della azarà , pur restandone fuori (è ancora impuro) per ricevere su questi l'aspersione del sangue sacrificale dal parte del Coen. In pratica la Torà lo ha avvicinato quanto più possibile al sacro.

È spiegato in Majanà shel Torà che costui si è venuto a purificare ed ha già fatto teshuvà e per questo gli viene aperta una nuova porta, secondo il principio caro ai nostri Maestri che è talmente grande la teshuvà che Iddio benedetto è disposto persino a fare un buco nel Suo trono per riceverla.

È questa una affascinante visione di colui che vine a purificarsi sospeso sulla linea che c'è tra il sacro ed il profano in uno dei punti chiave del Santuario - la porta di Nikanor - che è appunto simbolica del nostro accesso al servizio Divino. È proprio questa la porta a cui ci riferiamo ogni volta in cui parliamo di neilat shearim. Ce lo figuriamo così, in un equilibrio precario che è simbolico del precario equilibrio spirituale di chi ha mancato. Cionondimeno è proprio questo gesto - il tendere le mani - dal profano al sacro che segnala il ricongiungimento dei due mondi separati dalla porta di Nikanor e la rinnovata purità del maldicente.

Nella visione di Ezechiele del terzo Santuario, possa essere ricostruito presto ed ai nostri giorni, la porta del cortile interno resta chiusa nei giorni della settimana, mentre viene aperta di Shabbat e nei Rashè Chodashim. Secondo lo Sfat Emet è questo un richiamo al fatto che la sacralità della giornata offre l'opportunità di un rinnovato rapporto tra l'uomo ed il suo Creatore. Proprio come una porta che improvvisamente si apre.

E quando Shabbat e Rosh Codesh coincidono nella stessa giornata, allora questa apertura si fa ancora più profonda e la doppia luce spirituale delle due giornate diviene gemella in santità, nelle parole del piut con cui gli ebrei italiani accompagnano questa giornata.

Questo Shabbat è anche Rosh Chodesh Yiar, il mese di coloro che si sono purificati. Di coloro che non avevano potuto fare Pesach, perché erano impuri o lontani e che hanno una seconda opportunità nel Pesach Shenì. La nostra generazione ha meritato di passare proprio nel mese di Yiar dalla lontananza alla vicinanza con il rimpatrio degli esiliati e la costituzione dello Stato d'Israele. Possa questo mese di Yiar che si rinnova su di noi e su tutta la Casa d'Israele in pace benedizione essere anche il mese della ritrovata purificazione, della solidarietà e dei buoni rapporti tra tutti noi.

domenica 12 aprile 2009

Cosa vede una serva sul Mare

La settimana di Pesach non vive all'ombra del Seder. È piuttosto un crescendo verso l'apertura del mare che segna il settimo giorno di Pesach. E da lì, verso il Dono della Torà sul Sinai, sette settimane dopo il Seder. Nel Seder stesso ricordiamo la centralità dell'apertura del mare, giocando con i numeri assieme ai Maestri della Mishnà, per stabilire l'entità delle piaghe che gli egiziani ricevettero in Egitto e sul mare. La proporzione è nota ed è di uno a cinque. Le piaghe dell'Egitto sono il 'dito di D.', quelle sul mare 'la grande mano'.

Rav Mordechai Elon shlita spiega che la differenza tra il dito e la mano è la differenza tra il particolare ed il generale. Ogni piaga d'Egitto è un evento singolare. È sul mare, dinanzi alla disfatta totale del sistema-Egitto, che si può capire la mano, l'insieme degli eventi. Si può avere una visione macroscopica per quanto possibile in termini umani. È sul mare quando Israele non vede più l'aguzzino di turno, ma l'intero Egitto, che prima insegue e poi annega, che la visione della redenzione si fa più chiara.

Il Midrash dice che 'vide una serva sul mare quello che non vide neppure Ezechiele.' Spiega Rav Elon che la visione dei profeti è appunto la visione della totalità. La visione generale. Sul mare il più semplice degli ebrei riesce ad uscire dalla visione dei singoli eventi dalla quale siamo così affascinati e riesce a scorgere l'intera immagine.

Il Rebbe di Kozk, con la sua particolare pungenza commenta che nonostante ciò 'la serva resta una serva ed Ezechiele resta Ezechiele'. Spiega Rav Elon che non basta l'evento una tantum. I profeti sono tali perché persistono in questo status di visione. Una visione momentanea, sebbene importante, non può supplire all'assenza di un lavoro costante sulle nostre anime. L'aver assistito ad un momento di redenzione ineguagliabile, non rende la serva, superiore ad Ezechiele.

Sono queste giornate particolarmente intense, in cui tutti possono raggiungere livelli generalmente molto distanti. La vera prova delle feste comincia qui. È nel portare la santità del Seder nel quotidiano che possiamo capire se veramente 'questo Pesach' ha lasciato una traccia indelebile sulle nostre anime.

È in questa antica ricetta, la ricetta della supremazia del quotidiano, partorita in un difficile quanto affascinante Seder a Benè Berak, che i nostri Maestri hanno lastricato la strada che porta alla Redenzione finale.

venerdì 3 aprile 2009

Karpas - imparare a mangiare

Uno dei momenti più "strani" della sera del Seder è senza dubbio il Karpas.  Subito dopo il Kidush, prima ancora di iniziare ad adempiere al precetto positivo della Torà di narrare l'uscita dall'Egitto, ci laviamo le mani (Urchaz) e mangiamo un pezzetto di sedano intinto nell'aceto (secondo altri in acqua salata).  Prima di mangiarlo, ovviamente, recitiamo la benedizione dei frutti della terra.  E' una cosa stranissima che apparentemente non ha nulla a che vedere con il cerimoniale della sera. Ma ancora più strano è il fatto che prima di mangiare una verdura intinta in un liquido ci laviamo le mani. Si tratta di un antico rigore non universalmente accettato che in  questa serata speciale viene "rispolverato" proprio a questo punto. Da notare che questa stranezza scatena una serie di domande, in parte sollevate anche nel Ma Nishnanà.

Rav Mordechai Elon shlita, nella sua Haggadat Techelet Mordechai,  elenca quattro stranezze relative al Karpas. 

  • Il problema della netillat yadaim.
  • Come mai, ammesso che ci voglia la netillat yadaim, il karpas è così importante da dedicargli uno dei simanim,  una delle "stazioni" nelle quali il Seder è suddiviso?
  • Ci sono diversi usi riguardo se si debba o meno reclinarsi per il karpas come per gli altri elementi chaive del Seder. Alcuni sostengono di no, perchè anche il karpas potrebbe avere delle allusioni alla particolare durezza della schiavitù.  Quelli che invece si reclinano perchè si reclinano?
  • Perché a differenza delle altre sera mangiamo qualcosa prima della benedizione del pane?

Rav Elon risponde che la soluzione a queste domande è da ricercare nel fatto che il karpas viene a sottolineare il fatto che in questa serata siamo tutti principi. L'uso, all'epoca della Mishnà e del Talmud, era che le persone benestanti aprivano il loro pasto con un antipasto simile al karpas.  Era un modo per stuzzicare l'appetito per persone che avrebbero poi avuto un lauto pasto. I poveri e gli schiavi invece non scherzano davvero con il loro stomaco.  Rav Hisda ricorda in Shabbat 140b che, memore di quando era povero e non poteva permettersi un tale aperitivo, anche quando divenne benestante non accettò mai questa consuetudine nel resto dei giorni dell'anno.

Ma la sera di Pesach siamo tutti principi, tutti benestanti, tutti liberi. E lo segnaliamo comportandoci come tali: mangiando il karpas.  Rav Elon spiega che uno dei percorsi particolari di questa serata è la consacrazione di quanto mangiamo. Mai nel corso dell'anno,  recitiamo benedizioni 'al achilat', ossia che ci hai comandato di mangiare. Il precetto di mangiare qualcosa era frequente nel Santuario. Ma nel nostro mondo solo a Pesach siamo comandati di mangiare qualcosa e su questa recitiamo una benedizione "che ci hai comandato".  La sera del Seder è allora il momento in cui riscopriamo il rapporto sacrale con l'alimentazione. Mangiamo qualcosa (la mazzà ed il maror, in assenza purtroppo del korban) perchè è mizvà. Non per saziarci. Perché è mizvà. La radice della vera libertà spiega Rav Elon è mangiare qualcosa esclusivamente perché è mizvà. Cerchiamo di capire bene quello che ci sta dicendo Rav Elon: se c'è una sera nella quale non è che si mangi proprio presto è quella di Pesach. Arriviamo alla cena molto più tardi rispetto al solito, perché questa è solo a metà del Seder (e conosciamo tutti le proteste ed il sarcasmo che ciò scatena nel rashà). Quando uno mangia tardi ha fame. Vengono i maestri e dicono: inizia il seder stimolando la fame. Aumenta la fame che hai. Si deve arrivare affamati alla mazzà: per questo non si deve mangiare tanto nemmeno a pranzo. Per arrivare affamati alla mazzà. E quando sei affamato, e vorresti solo qualcosa da mettere sotto i denti, quello è il momento in cui devi mangiare - solo ed esclusivamente - perché è mizvà. Questa è la libertà. Lo staccarsi dai vincoli della materia, santificando la materia e trasformandola in puro strumento di mizvà. Non mangio perché ho fame. Mangio perché è mizvà. Ed è mizvà avere fame per mangiare la mazzat mizvà. Questa è la sera nella quale proviamo a ricomporre la trasgressione di Adam HaRishon che era stato comandato di mangiare.

"Il Signore Iddio ordinò all'uomo dicendo: da ogni albero del giardino 'mangiare' mangerai." (Genesi II,16)

[abbiamo approfondito il senso di questo verso nella derashà di Bereshit del 5760  http://digilander.libero.it/parasha/archivio%2060/6001.htm ]

Adam aveva ricevuto il precetto di mangiare. Ed abbiamo visto in passato che proprio la sua incapacità di mangiare perché è mizvà (e sopratutto l'incapacità di comunicare ciò a Havvà) provoca l'alimentazione proibita dall'albero della conoscienza.  Se non si sa mangiare perché è mizvà, dice Rav Elon, si finisce per mangiare perché il serpente,  l'istinto del male, ci spinge a farlo.

Questo è quello che cerchiamo di aggiustare la sera del Seder. Mangiamo ciò che siamo comandati di mangiare e non mangiamo il chamez, proibito a Pesach.  Innalziamo il cibo, la più materiale delle esigenze umane ad atto sacro. Come si fa ad arrivare a questo livello? Attraverso la netillat yadim. La purificazione è ciò che innalza la meteria. Prima di kadesh, non serve lavarsi le mani. Le parole, le idee, lo spirito, non possono divenire impure. Ma la materia si. E per innalzare la materia, proprio in questa serata, dobbiamo lavarci le mani. Ed allora urchaz prima di karpas.  Adam sbaglia quando comunica a Chavvà solo il divieto, non fornendole gli strumenti positivi per servire Iddio con l'azione. Ed è proprio la comunicazione della mizvà, che assieme alla mizvà stessa ci accompagna in questa serata. Stasera non basta mangiare perché è mizvà.  Si deve saperlo narrare ai figli, alle moglie ed a se stessi.

mercoledì 25 marzo 2009

Un Capretto ed El Norà Alilà

È con grande sorpresa che quest'anno, insegnando a mia figlia 'Un capretto, Un capretto', la versione degli ebrei romani per il tradizionale Chad Gadià, che conclude il Seder di Pesach ho notato una cosa che mi era sempre sfuggita.

La prima strofa del Capretto è cantata con la stessa identica musica di El Norà Alilà, la composizione con la quale si introduce la preghiera conclusiva del giorno di Kippur.

Chi ha un minimo di dimestichezza con le musiche degli ebrei romani (ma anche degli altri riti) saprà che quando si usa una stessa musica non è per coincidenza. C'è un messaggio sotto traccia che va ricercato.

Ho sentito dire una volta da Rav Morechai Elon shlita che noi dovremmo studiare i pyutim, le composizioni poetiche che accompagnano la nostra liturgia, con la stessa serietà con cui studiamo il resto degli scritti dei nostri Maestri.

Ma che nesso c'è tra il Capretto ed El Norà Alilà?

In primo luogo entrambi concludono un momento importante: da una parte il giorno di Kippur, dall'altra il Seder di Pesach. La chiusura delle porte del Santuario, alla quale El Norà Alilà, segnalava la conclusione della giornata nel Santuario e conseguentemente la conclusione delle cerimonie del Kippur. Allo stesso modo si usa cantare il Capretto nel momento in cui si è terminato il cerimoniale del Seder.

I due canti sono fondamentalmente due affermazioni di fiducia nella salvezza del Santo Benedetto Egli Sia. Il Capretto ruota attorno alla salvezza d'Israele dagli oppressori e dalle nazioni che hanno cercato di annientarci. El Norà Alilà ruota attorno alla salvezza ed il perdono Divino per le nostre trasgressioni; la salvezza del nostro mondo interiore.

Paradossalmente a Kippur subito dopo la Neilà si mangia. A Pesach subito dopo il Seder, non si mangia fino all'indomani per preservare in bocca il sapore del Afikomen. (e del Korban quando c'era).

Un altro interessante paradosso è che nel Capretto si parla anche di Kippur ed in El Norà Alilà si parla anche di Pesach. Una delle letture della parabola del Capretto vuole che Israele sia il capretto che il Padre, il Signore ha acquistato per due zuzè, per due monete che rappresentano le due Tavole. Il kinjan, la proprietà che D. esercita su Israele è sancita dalla Torà. Ma Kippur è proprio il giorno delle seconde Tavole. Il giorno del vero Matan Torà. Il capretto ci richiama anche al capro - o meglio ai capri - di Kippur. Due capri identici uno per il Signore ed uno da mandare ad Azazel. Due capri identici come erano identiche secondo il Talmud le due Tavole. Come sono identiche due monete - che nell'antichità erano tra i pochissimi oggetti ad essere fabbricati in maniera identica. Anche El Norà Alilà, che verte sul perdono, si conclude con un richiamo alla gheulà, alla redenzione che celebriamo proprio a Pesach.

Dal punto di vista liturgico Pesach e Kippur sono i due momenti chiave del culto nel Santuario. Il cerimoniale di Kippur ruota attorno ad un uomo solo, il Sommo Sacerdote. Kippur è un giorno al singolare. Yomà. Il giorno. Secondo i Maestri, spiritualmente, il primo giorno della Creazione in cui il Signore era solo. Kippur è il giorno dell'introspezione. A Pesach anche c'è un gran da fare al Santuario ma al contrario nella molteplicità. Tutto Israele presenta il suo Pesach. Ogni nucleo familiare presenta il suo Korban. Neppure tutti assieme. In tre separate cerimonie, con tre gruppi. E' tutto multiplo a Pesach. Le kitot, ossia i gruppi, i figli, i bicchieri di vino fino alle piaghe con le quali i Maestri 'giocano' alle moltiplicazioni durante il Seder. Appena prima del Capretto continuiamo a 'giocare' con i numeri con 'Uno chi sa?'.

La Mishnà nel trattato di Pesachim (V,5) prevede che tra ognuna delle tre cerimonie del Pesach si faccia la neilat Shearim. Si chiudano le porte della azarà, del cortile interno. Esattamente come alla fine della giornata, nel momento che celebriamo con El Norà Alilà.

Anche qui il rapporto è rovesciato. Quando avviene la neilat shearim, alla sera, significa che tutti sono usciti. Tutti fuori. Resatano solo i Coanim di guardia. Quando Kippur finisce e si chiudono le porte, torniamo tutti fuori, nel mondo reale. La Torà dice che a Kippur escono tutti. Persino gli angeli non possono entrare nel Santo quando entra il Coen.

La neilat shearim di Pesach è esattamente il contrario. Tutti dentro. Il Talmud dice che le porte si chiudevano miracolosamente da sole, ma usa anche la chiusura delle porte di Pesach figurativamente per definire una situazione in cui ci sono tutti. Le porte si chiudono per il Pesach in maniera che non entrino tutti assieme in una sola volta, perché la Torà ha comandato che ci devono essere tre gruppi separati. Si chiudono le porte per tenere tutti dentro e non far entrare oltre. Anche la sera del Seder d'Egitto le porte delle case si sono chiuse per mantenere dentro il nucleo e lasciare fuori il Distruttore. In maniera straordinaria quella stessa porta viene aperta per il Profeta Elia - di cui parla l'ultima strofa di El Norà Alilà - annunciatore della redenzione.

Il Capretto ed El Norà Alilà nascondono allora un tesoro di significati nascosti che legano Pesach e Kippur, nella loro diversità, come momenti chiave nel nostro continuo percorso al servizio del Signore. Dobbiamo essere grati ai nostri Padri che insegnandoci a cantarli - con la stessa musica - ci hanno lasciato un tesoro da scoprire.

sabato 21 marzo 2009

I Quattro Figli nel Matan Torà

E' noto che compaiono nella Torà due versioni delle aseret hadiberot, le dieci parlate: una nella parashà di Itrò ed una nella parashà di Vaetchannan. I nostri Maestri hanno attentamente analizzato le differenze tra le due versioni cercando di spiegare alcune delle piccole differenze che le caratterizzano.

Il Talmud, nel trattato di Bavà Kammà (55a) cerca di capire come mai nella prima versione non compaia la radice di tov , bene che invece appare nella seconda versione in relazione al premio per l'adempimento al precetto dell'onore che si deve ai genitori.

Dopo una serie di incertezze - non tutti sono sicuri che la prima versione corrisponda a quanto era scritto sulle prime tavole e la seconda sulle seconde - il Talmud conclude la discussione con un insegnamento a nome di Shemuel bar Nachum per il quale il motivo è da ricercare nel fatto che le prime tavole vengono rotte.

Se in esse ci fosse stata la radice tov, ciò avrebbe significato - non sia mai - l'interruzione del bene da Israele

Il Maharil spiga che il livello spirituale delle prime tavole è quello degli angeli. Israele aveva raggiunto un livello spirituale altissimo ed ara quindi scollegato dalla materialità. Questo livello non può corrispondere alla parola tov perché questa indica che qualcosa si addice ad una situazione, in questo mondo. Per definizione dice il Marhil, non è corretto descrivere l'uscita da questo mondo materiale come una cosa buona-tov. Non perché l'accettazione delle prime tavole non fosse un bene, ma perché il livello che comportava non era conciliabile - non si addiceva - a questo mondo materiale. Tant'è che quel livello non dura e le Tavole vengono spezzate. Al contrario le seconde tavole - quelle in qualche modo sono in vigore ancora oggi - rappresentano il modello sostenibile.

Rav Dessler, sulla stessa linea, spiega in Mictav MeEliau (IV, 292) che le prime tavole erano sì ad un livello superiore, ma questo livello non siamo riusciti a raggiungerlo veramente. Al contrario il livello delle seconde tavole, seppure inferiore, è un livello in cui possiamo trovare la nostra completezza. Da qui si impara che è preferibile un livello inferiore in completezza che un livello superiore che non è il nostro.

L'idea che si deve servire Iddio al proprio livello non vuole in nessun modo fossilizzare la nostra avodat Hashem, il nostro Culto. Tutt'altro. Per servire il Signore però si deve essere autentici. Rachamanà libà baè. Il Misericordioso desidera il cuore. E non si può essere autentici ad un livello che non è il nostro. L'idea dell'autenticità del livello - alla quale per il Marhil corrisponde la parola tov - è allora legata al rapporto genitori-figli nel cui comandamento è incastonata la parola tov.

Questi concetti diventano una delle principali chiavi di lettura per quello straordinario momento di rapporto inter-generazionale che è il Seder di Pesach. 'Rispetto a quattro figli ha parlato la Torà'. Non solo troviamo infatti quattro diverse domande, poste da quattro diversi figli e le loro risposte. Ma la stessa halachà è che in questa sera è obbligo del padre insegnare al figlio secondo il suo livello.

I Maestri del Mussar hanno allargato questo concetto sottolineando che anche il figlio per uscire d'obbligo deve domandare secondo il suo livello. Ognuno di noi, per uscire d'obbligo la sera del Seder, deve riuscire a fare una domanda vera. Una domanda secondo il suo livello. Deve chiedersi e chiedere qualcosa che veramente non ha capito fino in fondo. Il Saggio non esce d'obbligo con la domanda del semplice e viceversa.

Essere autentici significa però anche accettare che la vita non è statica. Non è detto che la domanda semplice che era al mio livello lo scorso anno vada bene quest'anno. Essere genuini significa capire che la vita e la Torà con essa è dinamica e che se è vero che Iddio mi chiede di essere coerente col mio livello si aspetta un lavoro sistematico perché questo livello cresca. Perché il rischio paradossalmente è duplice. Da una parte si rischia di sovrastimare le nostre capacità - ed allora si rischia di fare l'errore delle prime tavole - ma anche il rischio di sottovalutare le nostre capacità non è certo una scelta migliore.

Vale la pena ricordare in questo senso il ruolo fondamentale di Moshè. Moshè - colui che dalla nascita è chiamato tov dalla Torà - rompe le Tavole quando capisce l'incoerenza di livello che essere rappresentano.

Ed è questo gesto, che D. approva, che secondo Rashì è la summa della vita di Moshè che viene celebrata negli ultimi versi della Torà. Un monumento alla autenticità.