Parashat Bo 5771
“E chiamo Moshè ed Aron, di notte, e disse: ‘Alzatevi ed uscite di mezzo al mio popolo, anche voi, anche i figli d’Israele ed andate a servire il Signore come avete parlato’” (Esodo XII, 31)
Leggendo la nostra Parashà, che ci presenta il culmine delle dieci piaghe e la liberazione dall’Egitto, spesso dimentichiamo che la richiesta di Moshé, apparentemente, non è quella di liberare il popolo. Moshé ed Aron si presentano dal Faraone chiedendo tre giorni di culto nei quali il popolo potesse allontanarsi e presentare offerte al Signore senza timore di offendere gli egiziani.
Il Faraone, è noto, rifiuta. Tutte le piaghe, tutti gli eventi di queste parashot, pur contenendo la radice del concetto stesso di libertà e divenendo sorgente di ogni possibile discussione su di essa, vertono su tre giorni di festa.
Ibn Ezrà commenta il come avete parlato, del nostro verso, ad intendere i tre giorni. Ossia dopo la piaga dei primogeniti, il Faraone acconsente a dare al popolo tre giorni di riposo. Il Faraone, va detto, teme non a torto che i tre giorni siano un pretesto per fuggire. Nel panico della morte dei primogeniti egli rinuncia però alle due garanzie che aveva chiesto in passato: il sequestro dei beni (il bestiame) ed il divieto ai bambini di partecipare. Rashì rende infatti l’apparente ripetizione anche voi, anche i figli d’Israele ad includere i bambini.
Vorrei approfondire proprio la questione dei bambini.
La trattativa sulla partecipazione dei bambini avviene all’inizio della nostra Parashà. Moshé annuncia la piaga delle cavallette. La corte è stanca e comincia a fare pressioni sul Faraone perché acconsenta. Il Faraone passa allora dal rifiuto totale alla verifica delle condizioni.
“E fu riportato e Moshè e Aron dal Faraone e disse loro: ‘Andate e servite il Signore vostro D-o. Chi và?’ E disse Moshè:‘Con i nostri giovani e con i nostri anziani andremo, con i nostri figli e con le nostre figlie, con il nostro gregge e con le nostre mandrie andremo poiché è per noi Festa per il Signore.” ( Esodo X, 8-9)
Il Faraone non è d’accordo. “...guardate che il male è davanti alle vostre facce..” e propone vadano solo gli adulti maschi perché è questo che state chiedendo. Non è chiaro cosa intenda il Faraone. Rashì, prima di proporre un bellissimo Midrash che si allontana però dal senso immediato del Testo, afferma che il testo va inteso secondo la traduzione aramaica, il targum.
Il Ramban dice che Rashì avrebbe fatto cosa gradita spiegarci a quale traduzione si riferisca perché sull’interpretazione di questo verso esistono diverse letture del targum. Il Ramban, e così anche molti altri Rishonim tra cui Ibn Ezrà, Chizkuni e Rabbenu Bechajè, sostengono che il Faraone starebbe dicendo: se insistete a chiedere che i bambini vengano con voi, le vostre cattive intenzioni sono ‘davanti alle vostre facce’, sono rivelate.
Mi avete chiesto di fare tre giorni di offerte. Chi è che fa le offerte o che comunque partecipa al culto? Gli adulti. Gli uomini, e neanche tutti. Se mi chiedete di portare i bambini è chiaro che non avete alcuna intenzione di tornare e che è tutto un pretesto. Ibn Ezrà dice anche che in effetti Moshé è sempre rimasto vago su questo punto. I nostri Saggi hanno ampiamente discusso come mai la richiesta sia solo di tre giorni se il Signore intendeva liberarli del tutto, e non è questa l’occasione per dilungarci su ciò.
Rav Josef Dov Ber Soloveitchik, il Bet Hallevì, propone un interessante lettura della tesi del Faraone. Secondo il Bet Hallevì iltargum del nostro verso va inteso come: ‘vi andrà male’. Non vi conviene accettare il servizio del Signore. Il Faraone direbbe loro che se tutte le piaghe hanno colpito l’Egitto per il rifiuto ad adempiere ad un comandamento Divino, figuriamoci cosa sarebbe successo con un servizio a tempo pieno. Il Faraone affronta allora una questione teologica: questo culto non è sostenibile. “voi soffrirete alla fine perché non adempirete a tutti i suoi comandamenti, ‘perché non c’è uomo sulla Terra che non pecchi’(Koelet VII,20)”. [Ed in un certo senso questo è anche quanto dice il Midrash citato da Rashì].
E qui il Faraone apre la polemica teologica ed halachica sulla questione della conversione dei bambini con tanto di citazioni dal Talmud. Il principio, stabilito nel trattato di Ketubot a pagina 11 a nome di Rav Hunnà, è che ‘si converte un minore per decisione del Tribunale perché è un beneficio per lui’. Ed il principio generale è che è permesso beneficiare una persona senza il suo consenso ma non danneggiarla a sua insaputa. La Ghemarà in loco lega il criterio al caso in cui il genitore si stia anche convertendo, caso in cui chiaramente il bambino ha un beneficio nel seguire il genitore. Il punto è, dice Faraone, che è impossibile servire propriamente il Signore. È impossibile non essere puniti. Dunque abbracciare l’ebraismo è sempre un danno. Ora, si può scegliere per il bambino qualora ci siano probabilità di beneficio e probabilità di danno: i genitori e soprattutto il tribunale valutano le probabilità. Non si può scegliere per il bambino quando il danno è certo. In quest’ultimo caso l’adulto ha il diritto di auto-danneggiarsi, ma non ha il diritto di danneggiare un minore. Quindi, non potete portare i bambini.
È straordinario questo commento Bet Hallevì che dipinge quello stesso Faraone che per il Midrash si bagna nel sangue dei bambini ebrei sgozzati, divenire il paladino dei diritti dell’infanzia, sostenendo che non è giusto convertire i bambini. Da notare anche che è proprio di conversione che si parla perché gherim, stranieri ma anche convertiti, siamo stati in Egitto.
È paradossale, ma proprio il Faraone sarebbe il primo a costringerci ad una riflessione sulla liceità del ghiur ktanim. Si può convertire un minore, a discrezione del Tribunale Rabbinico, se è un beneficio. O almeno se ci sono buone probabilità che osserverà Torà e Mizvot. Se si ha la certezza che così non sarà, allora si sta danneggiando il bambino e non si ha il diritto di convertirlo. Se si ha la certezza del danno non si esce dall’Egitto. La polemica del Faraone, va sottolineato, è valida anche nei confronti dell’adulto, di tutto Israele. L’adulto però è capace di intendere e volere ed ha il diritto di farsi un danno. Il bambino no.
La risposta di Moshé al Faraone la possiamo trovare a mio modesto avviso in un bellissimo commento dello Sfat Emet al nostro verso fonte.
La fonte talmudica per eccellenza sul ruolo dei bambini nell’ebraismo, l’abbiamo visto più volte, è nel trattato di Chagghigà a pagina 3a. Si parla del precetto positivo dell’Hakel, la radunanza che va fatta una volta ogni sette anni nel Santuario nella quale il re d’Israele legge dal libro di Devarim al popolo. La Torà specifica che debbono esserci tutti: uomini, donne e bambini. Il Talmud obietta che è già difficile capire come mai le donne siano incluse nel precetto (si tratta di un precetto positivo legato al tempo dal quale in genere le donne sono esentate) ma certamente non si capisce come si possano comandare i bambini che sono esenti da tutte le mizvot. Il Talmud riporta a nome di Rabbì Elazar ben Azarià che i bambini vengono “per dare merito a chi li porta”.
Lo Sfat Emet protesta che non si capisce bene che merito sia: se sono esenti non c’è mizvà e dunque non c’è merito. E risponde: “la sua spiegazione è che Israele ha la forza di fare un’azione leshem Shamaim (con intenzione sacra) e questa diviene una mizvà e questo è il concetto di Torà Orale....e questo è quello che ha detto Moshè: ‘Con i nostri giovani....poiché è per noi Festa per il Signore.’ E spiega lo Sfat Emet che questo è per noi va capito come il verso che dice asher tikreù otam, (otam (esse) che si scrive come attem (voi)) dal quale si capisce che le feste vanno stabilite dal Tribunale.
Prima ancora che il Faraone obietti Moshé ha abbracciato nella sua affermazione dell’inclusione dei bambini come degli anziani nel servizio Divino, il concetto di Torà Orale. La festa è per tutti noi perché è il nostro tribunale che la stabilisce sulla base della Torà Orale. Quella stessa Torà Orale che trasforma il buon proposito educativo dei genitori in mizvà.
“ed ecco che i bambini sono inclusi nei loro padri, e per mezzo del fatto che il padre e la madre fanno con lui una mizvà il figlio si raffina e gli si aggiunge santità anche se non è cosciente, come il fatto che il Santo Benedetto Egli Sia associa un buon proposito all’azione. Così la mancanza di azione da parte del figlio è dovuta ad un legittimo impedimento (ossia all’essere minore) e la volontà di coloro che lo portano è come l’azione e questo è il concetto del portare i bambini ed il concetto della Torà Orale dal punto di vista della saggezza di colui che sa prevedere cosa accadrà: in modo che il bambino sia abituato in santità e questa è l’aggiunta, lo spronamento e e la preparazione della mizvà...” (Sfat Emet in loco)
Moshé sta spiegando al Faraone che non è affatto vero che l’ebraismo sia insostenibile. Che la Torà sia impossibile e necessariamente un danno. Non solo. La Torà non è un imposizione Divina né un sistema basato sulla punizione. È piuttosto un dialogo aperto tra l’uomo con i suoi limiti e D. nella Sua onnipotenza. La Torà Orale rappresenta la nostra partecipazione alla Creazione stessa. Attraverso la Torà Orale noi diveniamo soci del Signore. È un rapporto, un dialogo, che il Faraone nella sua tirannica monarchia assoluta non può neppure concepire. Il Faraone vede solo la piaga, la punizione, non riesce a vedere la dirompente sacralità che c’è nell’educazione di un bambino.
Lo Sfat Emet, sempre nella nostra Parashà spiega che la parte fondamentale della mizvà è che questa lascia una segno nell’anima umana. Per quanto la mizvà vada eseguita come comandamento Divino senza alcun ulteriore motivo, ciò nonostante è la preparazione alla mizvà, il desiderio della mizvà, che incidono profondamente sull’anima.
Lo stesso avviene con i bambini. È l’educazione alle mizvot prima ancora che questi siano tenuti alla loro osservanza che lascia quella traccia che permette poi, da adulti, di fare la mizvà in completezza.
All’ipocrita preoccupazione del Faraone della tutela dell’infanzia Moshé risponde dicendo che noi abbiamo la Torà Orale. Che noi siamo depositari della Torà. Che la Torà è la nostra stessa vita e che i bambini vanno educati. E che è proprio la Torà Orale, nelle mani del Tribunale, che stabilisce quand’è che c’è probabilità di beneficio e quando la certezza del danno. Non ci deve allora stupire se proprio l’educazione è il solo criterio che il Tribunale prende in considerazione per convertire un minore.
Ad un Faraone che vuole tenerci in Egitto dicendo che non è possibile convertire i minori noi diciamo che per quanto difficile è possibile se li si educa. Se si sta insieme. Se si è collettività. L’educazione del minore da convertire diviene prototipo dell’educazione dei minori in generale: vero spartiacque tra l’Egitto e la redenzione. Non è certo un caso che il Seder di Pesach ruoti proprio attorno ai bambini.
Si può prendere un bambino senza alcun obbligo e trasformarlo in un partner nella mizvà, ma ci vogliono un padre ed una madre che lo educhino in questo senso.
Per inciso secondo il Midrash citato da Rashì il Faraone prevede sangue nel deserto. Il sangue dello sterminio come punizione per il Vitello d’Oro. Il Signore lo trasforma in sangue della milà, che farà Jeoshua in Erez Israel. Di nuovo, a chi vede solo la punizione si risponde con una mizvà, la milà, che i genitori fanno su un bambino che non è in grado di scegliere da solo.
Tutto ciò non è un elemento accessorio all’ebraismo. È una conditio sine qua non del nostro essere ebrei.
Infatti, conclude lo Sfat Emet, il termine benè Israel, figli d’Israele racchiude l’idea di bonè Israel, coloro che costruiscono Israele.Il concetto stesso d’Israele noi lo costruiamo continuamente educando i bambini attraverso la Torà Orale. I figli, i bambini sono i mattoni (lebenim) dell’idea stessa di Israele.
Con buona pace del Faraone e soci.