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giovedì 23 dicembre 2010

Jacov, il giovane


Parashat Vaichì 5771



E visse Jacov nella terra dEgitto diciassette anni…” (Genesi XLVII, 28)

La Parashà di questa settima completa il ciclo della vita dei nostri Patriarchi. In maniera paradossale la Parashà che tratta la morte terrena di Jacov nostro Padre, si apre con la parola, vaichì, e visse. Questo termine ha ovviamente incuriosito i nostri Maestri. L’idea di fondo, e ne abbiamo parlato più volte è che vita e morte sono concetti relativi. In una nota idea talmudica i giusti sono chiamati vivi anche da morti, perché si parla di loro e della loro Torà. I malvagi invece sono considerati morti già in questa vita. Perché sono morti spiritualmente. Jacov ha vissuto profondamente questi ultimi diciassette anni di vita. Li ha riempiti di vita, di significato, di Torà, di famiglia e di tanti nipoti. In realtà sappiamo molto poco di questi anni. La Torà ci racconta l’arrivo di Jacov e famiglia, ma non ci dice niente di ciò che avviene dopo. Il discorso riprende, appunto nella nostra Parashà, negli ultimi momenti di vita di Jacov.

Lo Sfat Emet ritiene che Jacov sia riuscito a portare in Egitto, nel più basso e materiale dei luoghi, la spiritualità del suo livello. Jacov compie in questo senso un operazione straordinaria. Riesce, pur scendendo nell’esilio, ad illuminare il buio rendendolo un luogo di vita.E visse Jacov. Di più dice lo Sfat Emet, Jacov non solo è coscientemente sceso in esilio ma è anche andato volontariamente in ogni ‘malein ogni situazione problematica in modo da preparare la strada per ogni futura difficoltà che avrà il popolo d’Israele. Così il Rabbi di Gur legge l’introduzione alla benedizione di Efraim e Menashè. ‘langelo che mi ha redento da ogni male…; da ogni malenel senso che Jacov ha effettivamente sperimentato ogni male. E lo ha vinto. Lo ha vinto affinché Israele potesse in futuro avere la forza di confrontarsi con tutte le peripezie che ha avuto nella sua storia.

Quest’idea di Israele popolo come proiezione di Israele patriarca porta i nostri Saggi a dire nel Talmud che ‘Jacov nostro padre, non è morto. In un certo senso Jacov si trasforma da singolo a popolo ma non muore. È vivo in ogni momento.

Quest’idea di proiezione è fortemente legata al rapporto intergenerazionale. Jacov nostro padre sembra avere una predilezione per i piccoli. Sappiamo che studiava Torà con il piccolo Josef prima che questi fosse venduto. I Saggi ci dicono che in Egitto studiava con Efraim suo nipote. In effetti l’unica cosa che la Torà ci narra di quegli anni è proprio l’incontro-benedizione con i figli di Josef. La storia è nota e le ripercussioni anche: Jacov inverte la direzione delle mani ponendo la destra riservata alla primogenitura su Efraim quantunque fosse il piccolo.

Il testo dice che mise la mano sulla testa di Efraim “veu hazair, ed egli era il giovane.

Lo Sfat Emet commenta in maniera apparentemente criptica questo episodio. Egli dice che dopo aver messo la mano destra su Efraim, “egli rimase il giovane per se stesso.

Chi rimase giovane? Efraim? Jacov? E pechè per se stesso?

Lo stesso dobbiamo chiederci per il nostro verso a questo punto. Jacov mette la mano sulla testa di Efraim che era il giovane, oppure piuttosto la Torà ci sta dicendo che nel mettere la mano sulla testa di Efraim è Jacov ad essere quello giovane.

A mio modesto avviso il Rabbi di Gur sta proponendo qui una lettura stratificata dell’episodio.

Jacov di inversioni di primogentiti con i giovani ne sa qualcosa. Si è scottato già tre volte almeno: lui è stato il giovane che ha preso il posto del primogenito. La donna che ha amato più di ogni altra cosa, Rachel, è stata la giovane alla quale la primogenita ha preso il posto. Il figlio che ha amato più di ogni altro, Josef, è stato il giovane che ha preso il posto di primogenito. Nessuno di questi episodi è stato indolore. Sono tutti traumi. Per il Rabbi di Gur la Torà ci sta dicendo che Jacov inverte le mani proprio perché è lui il giovane. Proprio dalla posizione dell’essere giovane Jacov prende questa decisione. Lo Sfat Emet dice che nonostante l’anteposizione e la conseguente primogenitura, Jacov rimase ai propri occhi il giovane. Forse avvenne lo stesso per Efraim. E forse è proprio questa condizione che Jacov vede e privilegia.

Sembra quasi che essere zair , essere giovane sia una condizione esistenziale piuttosto che un dato anagrafico. Per capire questo punto dobbiamo riflettere su un altro aspetto di questa benedizione che Jacov da ad Efraim e Meneshè. In questo caso, nonostante l’inversione non c’è conflitto. Ognuno sa essere se stesso. Ha sì privilegiato Efraim, ma Efraim resta il giovane. Menashè non è mortificato. Senza Menashè non è completa la benedizione che ogni padre ebreo da ai suoi figli ‘ti renda simile Iddio ad Efraim e Menashé’. Perché un figlio come loro è quanto un padre può desiderare. Diversi, con indoli diverse, con ruoli diversi e con priorità diverse, ma entrambi esattamente ciò che Iddio vuole. Perfetti nella loro autoreferenza. Non uno rispetto all’altro. Efraim resta il giovane ezel azmò per se stesso, perché non deve essere paragonato a Menashè. Jacov capisce ed insegna dopo una vita di tribolazioni su questo punto che ogni figlio è una perla irripetibile che come tale non va paragonata alle altre.
                                                                                               
Lo Sfat Emet ricorda come, tra tutte le benedizioni dei figli in questa Parashà, Josef è l’unico a cui il Testo associa la parola berachà.Le altre benedizioni vengono dette. Qui Josef viene benedetto. Egli commenta che il concetto di berachà, di cui altre volte ci siamo occupati, racchiude l’idea di riversare, di tirare, di proiettare. È il passaggio dell’infinito nel finito. Berachà, viene dalla radice di berechà, cisterna. Quasi ci fosse un contenitore spirituale dal quale il sacro si riversa. Ebbene questa è la caratteristica appunto di Josef, che Jacov così ama. La capacità di trasmettere benedizione, di proiettare soprattutto sulle generazioni future. Un’altra derivazione della parola bereachà è la parola berech, ginocchio. L’idea è che proprio inginocchiandoci riconosciamo l’autorità di D. ed il fatto che tutte le benedizioni vengono da Lui. La benedizione è anche e soprattutto allora il riconoscimento dell’origine Divina di tutto quanto accade. È interessante notare che questa caratteristica di Josef, che ripete a iosa che tutto viene dal Signore viene recepita in qualche modo anche dagli egiziani. Quando Josef  viene nominato Vicerè, la prima cosa che gli viene gridata al passaggio è Avrech, in ginocchio.

Non è certo un caso che anche nella nostra Parashà, le ginocchia di Josef vengono ricordate due volte. Josef nel presentare i figli alla benedizione di Jacov li fa uscire dalle proprie ginocchia. In questa descrizione così autentica della Torà, dei ragazzini intimoriti si erano evidentemente attaccati e nascosti tra le ginocchia paterne. Ma il senso è più profondo. Efraim e Menashè escono dal concetto stesso di Birkè Josef. Hanno fatto loro il principio della Berachà, dell’origine Divina di tutto, che Josef ha insegnato loro . È fantastico che Jacov stesso sia stupito di questa profonda identità tanto da costringere Josef, secondo il Midrash, a mostrare lui la Ketubà che attesta l’origine sacra della propria progenie.

Ma Josef non si ferma, negli ultimi versi della Parashà, è descritta la vecchiaia di Josef. Di nuovo sappiamo pochissimo. Non sappiamo se sia rimasto al potere fino alla fine. Non sappiamo che ne è stato delle sue politiche agrarie. Sappiamo una cosa sola e solo quella conta: ha visto figli, nipoti e bisnipoti. ‘..anche i figli di Machir, figlio di Menashè nacquero sulle ginocchia di Josef.

Non sappiamo niente. Sappiamo solo che i bisnipoti di Josef sono nati sulle sue ginocchia.

Questa è la grande lezione di vita di Jacov prima e Josef poi, in Egitto. Nel luogo dove si ammazzano tutti i bambini, egiziani compresi, per capriccio del tiranno di turno, c’è una famiglia, una cultura, nella quale il metro di una vita è la capacità di crescere nella Torà un bisnipote sulle proprie ginocchia.

La grande scommessa d’Israele è proprio nella capacità di creare le condizioni perché le generazioni si parlino. Perché nonni e nipoti comunichino. Il problema è che spesso le generazioni parlano lingue diverse. Ne sappiamo qualcosa noi. La maggior parte delle cose di cui parlano o si occupano i nostri ragazzi non esisteva nemmeno all’epoca dei loro genitori, figuriamoci dei loro nonni. Come si fa a parlarsi?

Lo si può fare solo se si riscopre che ci sono idee senza tempo, valori che non scadono e non aspettano nuove edizioni. Solo se capiamo che la Torà è la nostra vita potremo attraverso la Torà trovare quel linguaggio comune che così manca al giorno d’oggi.

Josef e Jacov non si sono visti per una vita. Il padre non sa nulla di cosa sia il figlio oggi e non è detto che avrebbe capito o metabolizzato le sottigliezze del politichese di corte. Ed il Midrash ci dice infatti che parlarono dell’ultima lezione studiata assieme: il precetto della Eglà Arufà, la giovenca accoppata.

Se saremo capaci di riscoprire la profondità della condivisione della Torà tra le generazioni faremo un gran regalo a noi, ai nostri anziani ed ai nostri bambini.

Restando ognuno giovane per se stesso.

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