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giovedì 23 dicembre 2010

La Mishnà di Jeudà



Parashat Vajgash 5771

E si appressò a lui Jeduà... (Genesi XLIV, 18)

La Parashà della nostra settimana segna la ricomposizione della frattura tra Josef ed i suoi fratelli. Il suo momento di maggior tensione è senz’altro nei primi versi nei quali Jeudà emerge nuovamente e definitivamente come il leader dei fratelli e si lancia in un arringa al termine della quale Josef non riesce più a trattenersi e si rivela ai fratelli.

Che cos’ha di particolare questa arringa? I nostri Maestri riflettono molto sulla parola ‘vajgashcon la quale si apre la Parashà e dalla quale prende appunto il nome. Potremmo tradurre come e si appressò e si avvicinò o ancora e si appropinquò. Il termine indica appunto tanto un avvicinamento fisico verso un oggetto o una persona di grande importanza quanto un atteggiamento di preparazione.

I Saggi hanno provato a dare diverse spiegazioni della struttura e del tono del discorso di Jeudà, spiegazioni che spesso sono assolutamente contrastanti. Forse perché il discorso stesso non è esattamente lineare. Rashì ad esempio sostiene che Jeudà ‘gli parlò duramenteRabbenu Bechajè di contro, nella sua introduzione alla Parashà, insiste proprio sulla ‘morbidezza del discorso di Jeudà.

È in effetti un discorso nel quale si mischiano rabbia, rispetto reverenziale verso una persona potente, disperazione, fiducia e tanto altro. Questo mix di espressioni che certamente è lo specchio del mix di sentimenti, forse anche contrastanti, che provava Jeudà in quel momento critico, è in qualche modo risolutivo, tant’è che Josef crolla.

Lo Sfat Emet sottolinea come in realtà non ci sia nulla di nuovo nel discorso di Jeudà. Egli piuttosto riassume gli avvenimenti, li ripete e forse li rivive. Proprio in questa ripetizione c’è però la chiave per comprendere il ruolo di Jeudà. Il nome Jeudà contiene la radice dileodot, che significa ringraziare ma anche e sopratutto accettare. A nome del nonno, il Chidushè HaRim, il Rabbì di Gur ricorda come noi veniamo chiamati Jeudim, giudei, proprio perché la nostra caratteristica è quella di ringraziare Iddio per ogni cosa, grande o piccola che sia. Ma anche per la nostra accettazione del principio che ogni cosa viene dal Signore. Jeudà allora non è solo il nome della persona ma è anche l’atteggiamento. Jeudà accetta.

Il percorso spirituale che fa Jeudà attraverso il discorso a Josef è allora per lo Sfat Emet un percorso introspettivo. Jeudà riassume gli eventi per razionalizzarli. Per accettarli ed accettare la Volontà del Signore Benedetto Sia, con gioiaEcco allora che l’avvicinarsi “elav, a lui, del nostro verso va oltre il senso immediato del Testo, ovvero ad indicare Josef. Ma può essere letto anche a lui, nel senso a se stesso, oppure a Lui, per eccellenza, ossia al Santo Benedetto Egli Sia. In questo Vajgash, è racchiusa la tensione di Jeudà che è al contempo verso Josef, verso se stesso ed in definitiva verso il Signore. Jeudà scende in profondità. Per riappacificarsi con Josef egli deve prima fare pace con se stesso, ed in qualche modo anche con il Signore.

Josef rappresenta invece nella simbologia dello Sfat Emet la profondità stessa. La radice sacra nascosta all’occhio esterno. È il sacro nascosto in profondità che va ricercato. Josef è linteriorità. È per questo che quando Jeudà, scavando dentro se stesso, e ripercorrendo gli avvenimenti ed annullandosi dinanzi al Signore giunge a quel livello di interiorità, la dimensione di Josef non può più celarsi, e Josef si rivela facendo dirompere l’interiorità.

È interessante che la tecnica utilizzata da Jeudà per scendere in profondità è apparentemente piuttosto poco accattivante. La ripetizione. In realtà Jeudà è il precursore del metodo attraverso il quale si studia la Torà: la Mishnà. La radice della parola Mishnà, insegnamento, incorpora il concetto di shanà (shin, nun, hei) il ripetere. Lo studio della Torà è Mishnà in quanto si ripete. Per capire la Torà, bisogna studiarla, e ripeterla e tornarvi sopra senza fine. La radice shin, nun, hei, che significa anche anno e riassume il concetto di tempo nella sua ciclicità, lega il concetto di studio a quello del tempo. Lo studio ha i suoi momenti, ma anche i momenti prendono vitalità attraverso lo studio. Quasi che studio e tempo fossero un tutt’uno.

In una delle acrobazie che solo l’ebraico può produrre, in questa ciclicità solo apparentemente statica si trova il shinui, il cambiamento. Quasi che solo tornando sullo stesso passo, solo ragionando senza fine sugli stessi concetti si possa produrre qualcosa di nuovo. Jeudà è dunque colui che introduce il sistema della Mishnà ed è appunto paragonato alla Torà Orale, laddove Josef è invece il simbolo della Torà Scritta. Josef e Jeudà sono due modi diversi ma complementari di servire il Signore e di vivere il proprio rapporto con il Sacro. Attraverso la Mishnà, la ripetizione, Jeudà interpreta Josef, la Torà scritta, se stesso, ed in definitiva e per quanto umanamente possibile capisce meglio l’opera Divina.

Non ci deve allora stupire che il ruolo di avanguardia che Jacov assegna a Jeudà nel preparare la discesa della Casa d’Israele in Egitto, viene percepito dal Midrash come la richiesta di predisporre un Bet Talmud, una Casa di Studio, in Egitto. Prima ancora che l’esilio inizi, per non dire prima ancora che la Torà venga donata sul Sinai, il sistema ‘Bet Midrash’ con la sua dialettica e soprattutto con la sua paziente ciclicità è parte integrante del popolo ebraico.

Lo Sfat Emet fa notare come la caratteristica di Jeudà e della Torà Orale sia nella pubblicità. Nella rivelazione. Laddove la caratteristica di Josef e della Torà Scritta è nel segreto. Se Jeudà scende in Egitto con l’intenzione rivelata di aprire una Scuola, Josef scende in Egitto in solitudine ed in segreto, e sopratutto nel segreto di un identità ebraica che per ovvie ragioni non può essere sbandierata più di tanto, nonostante i sinceri tentativi di Josef. Rivelato e segreto sono due anime della Torà.

Ma il Rabbi di Gur non tralascia di ricordare il fatto che su tutti questi discorsi e sulla complessità della rottura e della riappacificazione tra Jeudà e fratelli con Josef aleggi in maniera neppure molto velata il trauma della vendita. Jeudà non la nomina nel suo discorso, ma Josef non solo la ricorda, ma anzi la usa per definirsi. La rivelazione di Josef avviene in due fasi:

E disse Josef ai suoi fratelli: Io sono Josef, mio padre è ancora vivo? (Genesi XLV,3)
Josef si definisce con il proprio nome e basta e chiede del padre. I fratelli non riescono neppure a rispondere per lo shock. A quel punto succede una cosa incredibile. È Josef che usa il termine lagheshet e chiede ai fratelli quell’ulteriore sforzo che ha fatto Jeudà prima di loro. Vajgàshu. E si avvicinarono. Ed è a questo punto che Josef si definisce in maniera diversa:

E disse: Io sono Josef vostro fratello, che mi avete venduto in Egitto. Ed ora non vi intristite e non dispiaccia ai vostri occhi di avermi venduto qui, perché come sostentamento mi ha inviato Iddio dinanzi a voi... ed ora non voi mi avete mandato qui, ma Iddio, che mi ha posto come padre per il Faraone e come signore per tutta la sua casa e come governante su tutta la terra dEgitto. (ivi, 4-9).
Josef si definisce in quanto tale. Josef è rimasto Josef. L’interiorità non cambia. Sono i fratelli che non possono capire e devono fare uno sforzo. Lo sforzo passa per capire e razionalizzare le loro azioni, e sopratutto la vendita. ‘Io sono Josef e sono il risultato della vostra vendita’. Però quella vendita è sì opera vostra con annesse responsabilità, ma è allo stesso tempo nel piano del Signore. Da qui capiamo che è veramente tutto per il bene. Il risultato è sempre per il bene. Il male è intrinseco alle nostre azioni. Una volta fatta teshuvà e sanate le nostre responsabilità possiamo vedere come anche il risultato delle nostre azioni sbagliate è in bene. Con un percorso diverso, difficile, doloroso, ma pur sempre in bene. Perché tutto quanto Iddio fa è in bene.

Lo Sfat Emet Emet paragona la costruzione grammaticale del che mi avete venduto, con quella delle prime Tavole che hai rotto.Il termine asher, che è letto in quel caso dal Midrash come ‘Yeshar Kochacà Bravo!Si riferisce al fatto che Iddio ha apprezzato la rottura delle Tavole. Lo Sfat Emet vuole dire che così come l’apparente sacrilegio della rottura delle Tavole è un fatto positivo, così Josef consola i fratelli dicendo loro che la sua vendita ha avuto un risultato straordinario.

Cercando di approfondire questo paragone apparentemente azzardato del Rabbi di Gur, potremmo dire che la rottura delle Tavole sintetizza l’inadeguatezza d’Israele, la necessità di una migliore preparazione e lastrica la via della Torà, della Teshuvà e delle Seconde Tavole. Allo stesso modo Josef spiega ai fratelli che loro malgrado hanno creato le condizioni per una Teshuvà e per una situazione estremamente positiva. Sono stati strumento della Volontà Divina. Attenzione, questo non cambia di una virgola le loro responsabilità, ma una volta fatta teshuvà, e loro hanno fatto teshuvà, non c’è più nulla da recriminare.
Josef insegna loro che l’interiorità non è intaccabile, il disegno Divino è perfetto. È l’azione umana ad essere fallace. Ma l’errore può essere sanato.

Il motivo per cui noi non capiamo gli eventi è che proviamo a leggere le nostre vite ed il mondo che ci circonda in maniera lineare, secondo un prima ed un dopo. I Saggi ci hanno insegnato che “non cè un prima ed un dopo nella ToràCiò significa che non sempre i versi della Torà seguono perfettamente l’ordine cronologico, ma ha anche delle ripercussioni più profonde.

Chiunque abbia mai aperto una pagina di Talmud si rende presto conto che non ha senso dire che un trattato viene prima dell’altro. E questo perché già nelle discussioni del primo trattato di Berachot si chiamano in causa principi ed argomenti che saranno dibattuti solo molto più avanti. I Maestri della Mishnà e del Talmud parlano sempre come all’interno di un unicum nel quale, pur saltando da un punto all’altro con criterio, non si può mai dire cosa venga prima di cosa. Studiando il trattato di Shabbat sembra che si dovrebbe aver già studiato il trattato di Eruvin, ma quando si studia Eruvin si pensa che si sarebbe dovuto prima conoscere quello di Shabbat. Ma, anche all’intero dello stesso trattato, argomenti che verranno discussi più avanti vengono usati per definire questioni che poi avranno ripercussioni sui quegli stessi argomenti in un loop infinito. Proprio la ciclicità dello studio provoca il fatto che non c’è un prima ed un dopo ma è tutto al presente. Le scorse settimane abbiamo visto come il concetto di tempo sia estraneo alla Divinità. Ebbene la Torà, che come spiega lo Zohar è un tutt’uno con D. Benedetto Sia, è anche fuori dal tempo.

Ed è proprio quest’idea dell’unità, dell’unicità del Signore che deve generare lo stimolo per l’unità dei fratelli. Le diverse idee e le diverse vie per servire il Signore debbono trovare la loro unità. Questo è però possibile solo quando, oltre all’evidente dose di rispetto reciproco necessaria, si capisce che l’Unico che può avere una vera visione d’insieme è il Signore. La nostra porzione della visione d’insieme esiste solo in quanto ci annulliamo dinanzi al Signore ed accettiamo il suo dominio della storia e delle ripercussioni delle nostre azioni. Azioni che noi abbiamo preso nel completo libero arbitrio ma che non per questo sfuggono alla conoscenza ed al controllo del Signore.

In un epoca che privilegia la continua innovazione dobbiamo allora riscoprire il fascino della ripetizione. Dello studiare continuamente e ciclicamente, tornando, ripetendo senza fine perché come dicono i Saggi ‘non assomiglia chi ha studiato la propria porzione cento volte a colui che lha studiata cento e una volta.
È dalla ripetizione che sgorga il chidush, linnovazione. E quanto più saremo capaci di ripeterci e di riesaminarci, tantopiù la nostra sorgente interiore potrà sgorgare fuori.

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