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giovedì 23 dicembre 2010

I Nomi delle Stelle


Parashat Shemot 5771


E questi sono i nomi dei figli di Israele che arrivano in Egitto con Jacov, ognuno venne con la sua casa.” (Esodo I,1)

Il libro di Shemot che iniziamo a D. piacendo questa settimana, si apre con un’apparente ripetizione: l’elenco dei nomi dei figli di Jacov, le tribù d’Israele quindi, che scesero in Egitto. Il fatto che questi nomi non siano un dettaglio lo capiamo, banalmente, dal fatto che la Parashà e tutto il libro dell’esodo prendono appunto il nome... dai nomi. Shemot.

Ciò non toglie che la domanda sia pertinente: come mai la Torà, altrimenti così parsimoniosa nell’uso delle parole, sceglie di ripetere i nomi dei figli d’Israele? Questa è anche la prima domanda che Rashì si pone sul libro di Shemot.

La risposta di Rashì, che questi prende dal Midrash, è tutt’altro che semplice: “...per rendere noto il loro gradimento, che sono stati paragonati alle stelle che vengono fatte uscire e rientrare secondo il loro numero e secondo i loro nomi come è detto (Isaia XL, 26) Che fa uscire secondo il loro numero le schiere, chiamando tutti per nome.

I nomi vengono ripetuti per rendere noto il loro gradimento. Ma che vuol dire? Perché sono simpatici al Signore? E perché le stelle?

Lo Sfat Emet propone una serie di ragionamenti sul commento di Rashì.
I nostri Maestri hanno insegnato che gli angeli, messi del Signore, prendono nome dalla loro missione. Il nome descrive la loro missione: gli viene assegnato assieme ad essa, e con essa finisce. Anche il creato ed in particolare gli astri vengono chiamati ‘Schiere del Cielo’ ed assieme agli angeli rappresentano il mondo spirituale. Il Midrash ci sta allora dicendo che lo stesso vale, con qualche distinguo,  per i figli d’Israele.

Ed a chi viene reso noto il loro gradimento? Certamente ai figli dIsraele stessi. Che sappia ognuno che è parte delle Schiere Divine. E come le stelle illuminano la notte così sono stati mandati i figli dIsraele in Egitto per trovarvi illuminazione anche lì (Sfat Emet 5632) 

Quello che il Midrash ci vuole dire è che quantunque saremmo portati a vedere la schiavitù egiziana come un evento totalmente negativo, dobbiamo ricordare che vi siamo entrati con i nostri nomi. Ossia che quello era ed è il nostro ruolo. Illuminare il buio. Illuminare quel Mizraim, che è simbolo di ogni tzar, ogni ristrettezza. Anche oggi. Per questo il termine è al presente, che arrivano, perché in ogni momento i Nomi giungono con noi in ogni piega della storia. Per questo, spiega il Rabbi di Gur, Rashì tiene a sottolineare che è stata una dimostrazione di gradimento. Di chibbà. Non è una punizione. È paradossalmente la dimostrazione dell’amore Divino che ci chiama ad un compito che può anche essere difficile o sgradevole ma è pur sempre ciò per cui siamo stati creati. Illuminare il buio. Rivelare il dominio di D..

Lo Sfat Emet dice appunto che il termine galut, esilio, ha la stessa radice di ghilui, rivelazione. Lo scopo dell’esilio è che Israele riveli al mondo il Shem Kevod Malkuto, il Nome Glorioso del Suo Regno. La redenzione è infatti in primo luogo la rivelazione del Nome di D.. Questo avviene attraverso la comprensione che tutto è volere del Signore, anche l’esilio. L’esilio, il momento in cui potremmo essere portati a pensare all’abbandono da parte di D., raggiunge il suo scopo quando noi sappiamo spiegare al mondo che anche questo è volere di D.. La nostra spiegazione dell’esilio è la spiegazione del nostro nome, del nostro ruolo, ma anche la spiegazione, per quanto possibile del Nome di D.. 

Perché il nome è il ricordo e lallusione al corpo di colui che è chiamato. E così anche il Suo Nome Benedetto è ciò che è percepibile in questo mondo attraverso i suoi prodigi ed attraverso i figli dIsraele che rendono unico il Suo Nome [nel senso che] rendono percepibile la gloria del Suo Regno in questo mondo e questa è la dimensione del Suo Nome Benedetto. Poiché tutte queste prodezze come luscita dallEgitto e simili, sono lontane dal [lessere descrittivi de] la Sua Essenza Benedetta, e per questo è chiamato con il termine Shem, il Nome.

Ossia, anche il nome di D., che noi non pronunciamo neppure tanta è la sua sacralità, è solo la suprema e rivelata descrizione in termini umanamente percepibili della Sua Gloria. In vero il Signore non è neppure descrivibile dal Suo Nome. Cionondimeno noi dobbiamo tentare di spiegare il creato, di rivelare che tutto è espressione del Suo Nome. 

Il verso di Isaia che Rashì cita sottolinea la capacità Divina di dare un nome ed un numero alle stelle. Lo Sfat Emet dice che questa capacità è la prerogativa Divina di trasformare l’infinito in finito. Le stelle sono infatti, per quel che concerne l’uomo, senza numero.Avraham viene sfidato a contare le stelle, ‘se sarai capace di contarleEppure per il Signore che le ha create dal nulla esse hanno numero e nome. È cosa non percepibile per l’uomo, ma lo Sfat Emet insiste che se le stelle sono finite in questo mondo (e neppure possiamo contarle) esse sono spiritualmente infinite e questa è la grandezza del Signore che ‘crea il cè dal nulla e rende numero ciò che non ha numero

C’è un verso dei Profeti che dice ‘perché io Sono il Signore e non sono cambiatoQuesto intende, spiega lo Sfat Emet, che non solo il Signore è immutabile, ma anche il senso profondo della Sua rivelazione, il Suo Nome, non cambia. Per quanto a volte noi usiamo kinuiim, appellativi, diversi per la Divinità a seconda della nostra percezione dei diversi attributi Divini, in realtà anche il Nome è immutabile. Il Suo Nome è unico sia quando viene rivelata la Torà sul Sinai che nel momento in cui l’aguzzino egiziano di turno getta i bambini nel Nilo. Allo stesso modo sono immutabili i nomi d’Israele a differenza di quelli degli angeli.

Il merito d’Israele è quello di non cambiare i Nomi in Egitto. Di capire che la nostra missione di rivelazione del Regno del Signore è immutabile tanto in esilio che in redenzione. Quelli erano i nostri nomi prima e quelli sono dopo. Noi restiamo noi, con i nostri nomi ed il nostro ruolo a prescindere dalle condizioni esterne. Per questo, spiega il Rabbi di Gur, la Torà ci sta dicendo che i nomi sono scesi in Egitto. La radice di rivelazione e redenzione precede l’esilio stesso secondo il principio per il quale Iddio prepara la medicina prima ancora della malattia.

Eppure il nome non è dato staticamente. È piuttosto il modello al quale dobbiamo fare riferimento. Il verso dell’Ecclesiaste ‘È meglio il nome, piuttosto che dellolio buono che noi usiamo nella liturgia funebre è letto dal Midrash come dire meglio Channanià, Mishael ed Azarià che sono usciti dalla fornace che Nadav ed Aviù che sono rimasti bruciati. L’olio sarebbe l’olio del’unzione sacerdotale di Nadav ed Aviù, in qualche modo un’elevazione istituzionale. Channanià, Mishael ed Azarià sono invece il buon nome inteso come lo sforzo umano di essere fedeli servitori del Signore anche senza cariche ereditarie come il sacerdozio. 

Il buon nome, la cui corona secondo il Pirkè Avot, è superiore alla corona del Sacerdozio del Regno e persino a quella della Torà, è la capacità umana di sforzarsi, di migliorarsi. 

Secondo il Midrash le stelle sono state aggiunte nel buio della notte per consolare la luna dopo che questa è stata diminuita (rispetto al sole). Per lo Sfat Emet il regno notturno della luna è simbolico del Regno del Signore che è stato diminuito nella materialità di questo mondo. Il dramma è che la luce della luna non è proprio fortissima. Il buio della materia rende difficile la percezione del Regno del Signore. Ecco allora le stelle, simbolicamente i giusti del popolo d’Israele, aiutare la luna nel suo compito. Per questo le stelle, Israele, sono scese nel buio dell’Egitto. Per illuminare lì dove meno è percepibile la luce del Signore. Dove la materia è più densa. Dove lo spirito fatica a penetrare.

È detto nel libro di Daniel “Ed i colti splenderanno come lo splendore del cielo e coloro che rendono giusti i molti saranno eterni come le stelle”. (Daniel XII,3)

Secondo il Rabbi di Gur i colti sono i Patriarchi mentre coloro che rendono giusti i molti sono le tribù. In questo senso la caratteristica delle tribù è quella di espandersi. Di essere moltiplicatori. Sono paragonate a tutto il popolo d’Israele. I patriarchi sono invece la radice. L’interiorità. Sono paragonati dallo Sfat Emet ai yechidè segulà, ai singoli tesori, a quelle persone che si distinguono particolarmente. Al giusto. Per questo è detto nel verso che giunsero con Jacov ed assieme alla loro casa. Si tratta della caratteristica unica di Israele di essere al contempo legata alla radice, ai patriarchi, all’interiorità, ma al contempo capace di farsi multiplo attraverso la famiglia, la casa, il rapporto di coppia. 

Il nostro Rabbì Ovadià Sforno utilizza questo stesso verso nel suo commento alla Parashà di Balak per descrivere il Re Messia nella sua materialità. Se noi saremo veramente capaci di mettere assieme Jacov con le tribù, il cielo con le stelle, il più semplice degli ebrei con lo zaddik saremo allora degni del nostro nome e porteremo redenzione al mondo.

Quel nome che Iddio ha chiamato attraverso il Suo stesso Nome. 

La sfida del libro di Shemot è allora proprio la capacità d’Israle di portare degnamente il suo nome divenendo unificatore e descrittore del Nome di D.. Tanto più saremo degni del nome d’Israele tanto più il Signore sarà Unico ed il Suo Nome Unico.

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