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venerdì 8 ottobre 2010

Entrare nella Parola


Parashat Noach 5771

"E disse il Signore a Noach, vieni tu e tutta la tua casa nell’arca..." (Genesi VII,1)

Ci siamo in passato occupati del ruolo della lingua ebraica. L’ebraico non è una lingua come le altre. La lashon hakodesh, la lingua del Santo è la lingua con la quale il Signore ha creato il mondoCiò che distingue l’uomo dagli animali è l’anima vivente, che Onkelos rende come spirito parlante, la capacità verbale dunque. Ebbene l’ebraico è proprio la radice profonda del verbo, è l’interfaccia tra l’uomo ed il sacro. Nulla è lasciato al caso nella lingua del Santo, ogni parola, ogni lettera, ogni elemento grafico di ciascuna lettera ha il suo ruolo nella continua opera della creazione. Dando l’ebraico ad Adam, Iddio l’ha reso partecipe della Creazione. Ed Adam dà nomi agli elementi del creato. 

Le vicende dell’ebraico sono una chiave di lettura importantissima per capire la nostra parashà. 
Alla fine di questa, con l’episodio della Torre di Bavel, un umanità ormai corrotta, perde il diritto all’uso della Lingua del Sacro. Perde la capacità di interfacciarsi con quanto di sacro c’è nel mondo. 

L’ebraico, e quanto esso rappresenta, diviene retaggio assoluto del popolo d’Israele. 
Bisogna capire che questo discorso non è una bella idea filosofica, ma ha delle ripercussioni sul creato e sulla halachà stessa. Nel Talmud, nel trattato di Makot (3b) si discute dei liquidi che cadendo in determinate quantità dentro un Mikvè lo inficiano. Che differenza c’è tra dell’acqua attinta colorata (che rende pasul il mikvè) e dell’acqua attinta che si è mischiata a vino ed è altrettanto colorata (che invece non lo rende pasul)? Ravà non ha esitazioni, il fatto stesso che una cosa si chiama "acqua colorata" e l’altra "vino allungato" fa sì che una infici il mikvè e l’altra no. Le parole contano, le parole definiscono.

Il Chidushè HaRim a nome dei propri Maestri, (come riportato in Sfat Emet, Noach) riflette sul senso dell’oggetto chiave della nostra parashà: l’Arca. La Tevà. Tevà ebraico significa in primo luogo parola. 
"la Tevà di Noach...sono le parole (tevot) e le lettere della Torà, sicché ogni uomo può far entrare se stesso in ogni parola della Torà e della Tefillà e per mezzo di ciò salvarsi da ogni occlusione" 

Nel dire a Noach di entrare nella Tevà, Iddio gli sta dicendo di entrare nella parola. L’Arca come luogo di salvezza diviene il simbolo della parola come luogo (sic) nel quale ripararsi dal peggiore dei diluivi, quello della occlusione (ester), della lontananza dal Signore. Per entrare nelle parole della Torà e della Tefillà, secondo lo Sfat Emet, bisgona annullarsi. Si deve vedere la parola come il ventre materno del quale il feto è parte integrante. 

Ma c’è un livello più profondo. Le parole sono composte da lettere. Le lettere hanno una sacralità maggiore che è superiore alla comprensione umana. Esse hanno un senso quando diventano parole che possiamo capire. Entrare nella parola, significa per lo Sfat Emet, entrare nell’intimo della parole, nelle sue lettere. Proprio perché incomprensibili per se stesse, le lettere ci mettono di fronte a quanto di Divino c’è nel verbo. L’Alef-Bet indica la creazione stessa (Bereshit barà Elochim et... In principio creò Iddio ET – Alef-Taf , in italiano si direbbe A-Z – la prima creazione è quella dell’Alfabeto).

Le lettere sono dunque i mattoni della creazione che vengono creati per primi e poi composti in parole, quando la creazione passa da potenza ad atto. Per ricordarci quanto le lettere, al loro livello più elementare, siano importanti, i Saggi ci dicono che chi pronuncia ogni giorno le lodi del Salmo CXLV che è in ordine alfabetico (Theillà LeDavid – Ashrè Yoshevè Betecha) tre volte, gli è assicurata la Vita del Mondo Futuro. (TB Berachot 4b)

Le altre lingue sono secondo i Maestri, una traduzione dell’ebraico. Nella visione del Rabbi di Gur, ognuna è un estensione dell’ebraico che è ‘la radice di tutte le lingue’. Questa visione dell’ebraico come sintetizzatore di ogni capacità verbale e fulcro di ogni lingua ci aiuta a capire un altro aspetto di quanto avviene nella Parashà di Noach.

La generazione della Torre cerca l’unità. Non vuole disperdersi. Ma sopratutto vuole ‘farsi un nome’. Shem. Che i Saggi intendono come idolatria. La parola può diventare oggetto di idolatria. La capacità verbale stessa può servire l’esatto opposto della visione Divina quando invece di essere strumento per avvicinarsi al creatore viene usata per ‘cacciare le persone ammaliandole con le proprie belle parole e con discorsi ad effetto. Nimrod è proprio questo. Nimrod fa della parola, del proprio saper parlare bene, lo strumento per sottomettere il prossimo e spingerlo al male. Shem è un upgrade della parola. Ma il passggio da parola a nome è un passaggio sacro. Il Nome per Eccellenza è l’impronunciabile Nome di D. Il Nome degli uomini e delle cose è la loro anima più profonda, il loro ruolo nella Creazione. Paradossalmente anche le parole della Torà possono diventare oggetto di idolatria, ed in passato abbiamo visto come il Meshech Chochmà così intenda la rottura delle Tavole.

Nel momento in cui Iddio toglie agli uomini la capacità di parlare l’ebraico sta togliendo loro anche l’unità. La achdut, quell’unità che non è l’effimera unità stereotipata che essi cercavano, e cercano ancora, (achidut) quanto quella comunione di intenti sacri che rende secondo lo Zohar, Israele e la Torà un tutt’uno con il Santo Benedetto Egli Sia. (Comunione è un termine ebraico che non ha nulla a che vedere con la sua accezione da parte di altre culture. Ho sentito dire al mio Maestro Rav Reuven Roberto Della Rocca shlita, che traduce lechem hapanim, come il pane della comunione, che non dobbiamo aver paura di usare la nostra terminologia, solo perché altri successivamente ne hanno fatto uso improprio).

Nella nostra tradizione infatti, il numero delle lettere della Torà corrisponde alle seicentomila anime del popolo d’Israele. Così ogni ebreo è in realtà una lettera della Torà, che noi scriviamo continuamente con il nostro comportamento. La prossimità fisica, non è un male in se. È male se diviene surrogato per la mancanza dell’unità spirituale. E così anche, spiega lo Sfat Emet, paradossalmente anche se siamo stati divisi e sparpagliati tra le genti, possiamo e dobbiamo trovare la nostra unità proprio nell’attaccarci alle lettere della Torà, nell’entrare nelle lettere stesse. Solo in questo mondo ‘meriteremo la ricostruzione della Città del Santo dalla dispersione della diaspora’. Perché la stessa diaspora come ossimoro dell’unità fisica e politica è funzionale a tracciare il percorso della teshuvà: "La riparazione deve essere che si riesca a migliorarci e trovare la radice dell’unità dallo stato di dispersione così come colui che fa teshuvà-ritorno torna e si riavvicina proprio dal suo allontanamento". 

Secondo lo Sfat Emet così come questa radice di unità è presente all’inizio della Creazione, così essa è presente all’inizio di ogni anno, nel momento in cui il Creatore, Benedetto Sia, rinnova la vita. Gli Iamim Noraim, e poi Sukot ed infine Sheminì Azeret, sono proprio un percorso che ci deve portare all’achdut. E questo perché l’esercizio che facciamo in queste giornate è quello di accettare su di noi il dominio del Signore ed il Suo Regno. Non è certo un caso allora che i nostri Saggi hanno segnalato l’importanza del verbo proprio in questi giorni. 

Sono i giorni nei quali le nostre preghiere si riempiono di composizioni poetiche che sono ‘miissod Chachamim uNvonim’, fondate sui Saggi e Sapienti. E’ anche il momento in cui più è importante la capacità verbale dello shaliach zibbur, di quell’officinte che è inviato del pubblico. Ed è in queste giornate che il pubblico prega anche per ‘le bocche degli inviati del tuo popolo la Casa d’Israele...insegna loro cosa dire, falli consci di ciò che diranno...che non inciampino con la loro lingua e non sbaglino nelle loro espressioni’. E ferma restando l’importanza della oggettiva capacità verbale questa non può mai prescindere da quella sentimentale. ‘il Misericordioso desidera i cuori’, insegnano i Saggi. Ed infatti è sempre negli Iamim Noraim che nelle straordinarie parole dell’Ochila LaEl, ricordiamo il legame che c’è tra ciò che è nel cuore dell’uomo e la capacità verbale. Quest’ultima è un dono Divino e solo grazie all’aiuto del Signore possiamo trasformare i sentimenti in parole.

Questa capacità è secondo lo Sfat Emet parallela all’ordine Divino rivolto a Noach di uscire dall’arca. E quindi, secondo lo schema che ci ha accompagnato, di uscire dalla parola. Nei Salmi infatti è detto (142) ‘Hai fatto uscire dalla reclusione la mia anima e rendere grazie al Tuo Nome’. (Questo Salmo è stato scelto dal Rabbinato Israeliano per pregare per la liberazione di Ghilad Shalit(da quattro anni rapito, prigioniero di terroristi a Gaza che gli negano ogni più elementare diritto umano, compresa la corrispondenza con al famiglia o una visita della Croce Rossa)
‘...perchè il corpo ed il rivestimento dell’azione occlude la luce dell’anima e dell’interiorità, ma ci sono dei tempi nei quali si aprono le porte in cielo ed allora anche in basso si aprono i cuori delle persone che si occupano del servizio del Creatore...’ 

Dopo essersi immersi nella parola si deve saper uscire anche dalla parola. Uscire dalla parola significa trovare le parole per lodare il Signore. Per attaccarsi al Signore. Questo è possibile sopratutto in determinati momenti. Di Shabbat, nelle Feste, ma anche nei Capimese. 
Messo da parte per un attimo lo Shabbat che è nella Sfera del Signore ed è totalmente indipendente dal nostro operato, lo Sfat Emet riflette sulle Feste e sul Rosh Chodesh.
‘...sarebbe stato appropriato che tutti i capimese fossero giorni festivi, perché le tre feste sono per merito dei tre padri ed i dodici capimese sono per merito delle dodici tribù. Ma il [nostro] peccato lo ha impedito (Tur, Orach Chajm, Rosh Chodesh). E la questione è che nelle feste ci sono delle grandi porte. E nei Capimese delle piccole porte. E se le anime fossero sane santirebbero l’illuminazione da queste porte....’

Oggi non siamo degni nemmeno delle porte delle feste, visto che non abbiamo il Santuario. Ma in futuro, spiega il Rabbi di Gur, anche il Capomese tornerà al suo status originale di giorno festivo. Questa riflessione lo porta a spiegare anche il ruolo dell’Hallel del Capomese. Non c’è precetto dell’Hallel nei Capimesi, è un uso del popolo ebraico come si evince dalla Ghemarà. Ma quest’uso ha un senso profetico perché ‘se non sono profeti, sono figli di profeti’. Noi diciamo l’Hallel perché siamo consci che a Rosh Chodesh le porte si aprono e sebbene non siamo in grado di apprezzare il Roash Chodesh oggi, un giorno lo saremo. Noi diciamo l’Hallel gioendo di ciò che in futuro sarà il Capomese. 
La costruzione fisica della Torre come ricerca dell’unità diviene simbolo del fallimento dell’uomo nell’uso della lingua in quanto, parafrasando il Pirkè Avot, non era un raduno ‘leshem Shamaim’ con fini superiori. Il suo esatto contrario è allora per lo Sfat Emet la costruzione del Bet Hamikdash. "...faremo una costruzione in basso attraverso le anime dei figli d’Israele perché in ognuno di loro c’è una lettera o un punto...e questo è ‘leshem Shamaim’ che posi su questo raduno il Suo Nome Benedetto..."

Lo Sfat Emet ricorda che i Saggi hanno interpretato il verso nel quale Jeoshua e Calev dicono ‘saliremo salendo’, riferito alla nostra capacità di prendere possesso di Erez Israel, come ‘...se anche ci dicesse fatevi delle scale e salite in Cielo, ci riusciremmo..’Sembra quasi di sentire i costruttori della Torre. Quasi. Ma non è così. Il distinguo tra il ‘in nome del Cielo’ o, mai sia, non a nome del cielo, fa tutta la differenza.

Si può costruire una scala che congiunge Cielo e Terrra solo se si accetta che essa sia per glorificare il Nome del Signore e non il nome degli uomini. Solo se si capisce che il fine è un mondo migliore e non gli interessi contingenti di questo o quel Nimrod.

È una riflessione affascinante alla vigilia di uno Shabbat Noach che è anche capomese di MarCheshvan. Mar, amaro perché senza feste, almeno fino a quando non saremo capaci di fare del Capomese una ‘Reghel biFne Azmò’, una Festa a pieno diritto.
Shabbat Shalom e Chodesh Tov.

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