Parashat Toledot 5771
“E tutti i pozzi che avevano scavato i servi di suo padre nei giorni di Avraham suo padre li ostruirono i Filistei e li riempirono di polvere” (Genesi XXVI, 15)
La nostra Parashà, nella sua sconvolgente attualità, ruota attorno alla figura di Izchak. Un patriarca di cui forse si parla poco, ma la cui opera è fondamentale per la formazione del popolo d’Israele. Izchak è al contempo l’uomo del timore di D. e l’uomo d’affari per eccellenza. Egli racchiude la summa del timore reverenziale che si deve al Signore, facendo di questo attributo la chiave del suo culto. Ma allo stesso tempo è un uomo estremamente saldo nella sua opera materiale. Pozzi, piantagioni e affari. Affari che gli vanno particolarmente bene nonostante le difficoltà legate al tempo e allo spazio, come dice Rashì: l’anno era difficile e la terra era difficile. Nonostante ciò Izchak prospera.
Se c’è una cosa che dobbiamo però capire è che Izchak non è Avraham. Questo avvicendamento generazionale è comprensibile proprio alla luce del rapporto con gli altri. I Filistei. Il nostro verso-fonte descrive il modo in cui i Filistei otturarono i pozzi di Avraham dopo la morte di questi.
Bisogna capire a fondo questo atteggiamento. L’acqua è la risorsa più importante del medio oriente. Che senso ha privarsene? Il Chizkuni afferma che i Filistei volevano con ciò recidere la chazakà - la presa di possesso della Terra da parte di Izchak. Ciò, completa il discorso il Radak, a costo di pagare un prezzo loro stessi. Non avrebbero potuto tenersi i pozzi dopo aver cacciato Izchak? Avrebbero potuto, ma temevano che Izchak un giorno se li sarebbe ripresi. ‘Anche lui, anche noi, non li avremo’ dice il Radak.
I Filistei, come i Filistei di ogni generazione, non hanno alcun amor proprio, né particolari aspirazioni personali. Vogliono impedire la chazakà di Israele su Erez Israel perché capiscono che questa è parte del piano Divino. Essi combattono Israele perché combattono la radice sacra che è nell’opera di Israele. Rashì, sulla base di TB Pesachim 42°, ricorda che il termine stimà, ostruzione, indica in primo luogo l’ostruzione del cuore. I Filistei ostruiscono i pozzi fisici al fine di poter continuare ad ostruire il proprio cuore.
Su questa impalcatura i nostri Saggi hanno inserito delle letture molto più profonde di questi versi. Il pozzo è per eccellenza il simbolo della Torà. La Torà, che è paragonata all’acqua, sgorga come una sorgente solo quando il lavoro dell’uomo rimuove ogni ostruzione. In questo contesto ogni generazione ha i suoi pozzi, ogni generazione ha il suo modo di avvicinarsi alla Torà ed al servizio Divino. Lo Sfat Emet dice espressamente che ‘per questo li ostruirono, perché Izchak potesse aprire le proprie aperturÈ. Ovvero i Filistei sono loro malgrado strumento del piano Divino affinché Izchak fosse stimolato a trovare il proprio percorso, a scavare la propria strada verso la Torà, legata a quella di Avraham ma indipendente. Ed Izchak lo fa, ed anche bene. Scava i propri pozzi e li chiama con i nomi con i quali li aveva chiamati Avraham. È un operazione straordinaria che dovremmo sempre avere in mente quando ci relazioniamo alle generazioni che ci hanno preceduti. Cambiano gli strumenti, cambiano i modi ed ognuno ha i suoi. Il nome resta lo stesso. Lo scopo, l’intenzione è sempre e solo quella di servire il Santo Benedetto Egli Sia.
Il racconto della lite con i pastori di Grar diviene allora uno scenario spirituale ben diverso. “Per quanto [il Testo] leghi tutti [i litigi] ai pastori di Grar, evidentemente si trovano questi litigi nel cuore di ogni ebreo, il cui servizio viene sviato quando non è preservato appropriatamente e si trascina (nigrar) appresso alla propria opera un miscuglio negativo. E questo è quello che è chiamato ‘pastori di Grar’ ciò che si trascina (nigrar) nel cuore dell’uomo la superbia e l’altezzosità di dire ‘l’acqua è nostra’.” (Sfat Emet 5645)
Lo Sfat Emet analizza il rapporto tra Avraham ed Izchak proprio alla luce dei nostri versi. Avraham, è noto, si caratterizza per l’amore del Signore, per la misura della bontà, il chesed. Ma il chesed, tende ad espandersi, l’amore è dirompente e prima o poi nel suo fagocitare incontra la materialità e la falsità che è in essa (alma deshikra). Si può arrivare all’amore della materialità. E la polvere che questo genera ostruisce i pozzi. Non così è il timore di D. che è il risultato di una profonda introspezione, dunque tensione centripeta. Izchak, rimuovendo con compostezza la polvere che ha ostruito l’amore di Avraham scopre il timore. Da qui dice lo Sfat Emet che il vero amore genera il timore. Ognuno di noi si avvicina al Signore preso dall’amore e dall’entusiasmo. Questo atteggiamento, per quanto positivo ed indispensabile, prima o poi si raffredda. Tanto l’amore è grande tanto è difficile che non incontri la polvere. E prima o poi la polvere ostruisce. Per rimuovere la polvere ci vuole uno strumento diverso, il timore di D. Per questo il verso dice ‘Avraham generò Izchak’, perché Izchak è il risultato dell’amore di Avraham ed il timore di Izchak è la corretta evoluzione dell’amore di Avraham.
Mi sembra che questa sia un importante lezione per tutti noi. Esistono delle fasi nella vita di ognuno di noi, ma anche della nostra collettività. Ci sono dei momenti di grande entusiasmo e dei momenti di introspezione. Bisogna saper legare le cose, mettendo lo stesso nome ai nostri pozzi.
Il Rabbi di Gur, a nome del nonno, il Chidushè HaRim paragona i tre pozzi di Izchak ai giorni della settimana. Esek e Sitnà corrispondono ai giorni della settimana, Rechovot, allo Shabbat. Esek e Sitnà portano nella loro radice il litigio, l’odio. Nel corso della settimana nella quale ci confrontiamo con la materialità, il nostro servizio del Signore deve essere legato all’odio profondo per l’istinto del male. Noi dobbiamo, nella materia stessa, separare il bene dal male. Di Shabbat però possiamo entrare in un mondo completamente diverso, nel quale tutto è spiritualità. Di Shabbat la radice sacra si allarga, Rechovot, dalla radice di allargare, ingrandire. Di Shabbat lo spirito si espande attraverso l’astensione dalle melachot, i 39 lavori proibiti. Per questo motivo non c’è litigio per il terzo pozzo.
Lo Shabbat è retaggio unico del popolo d’Israele. Le nazioni del mondo ci combattono nella materialità della settimana, ma nello Shabbat ‘ein magà nochrì - non c’è contatto estraneo’. Di Shabbat Israele è in una dimensione irraggiungibile. Non c’è niente su cui litigare dinanzi alla chiarezza della santificazione di Israele attraverso lo Shabbat. Forse è per questo che i Saggi sono stati così duri al punto da dire ‘che un gentile che osserva lo Shabbat è reo di morte’.
Lo Zohar asserisce che ciò che i pozzi rappresentano è presente nella nostra vita attraverso le mizvot di Zizzit e Tefillin. Queste, tra i più quotidiani precetti dell’ebreo ci legano fisicamente alla sorgente della vita. Lo Sfat Emet, commentando lo Zohar, propone un interessante collegamento tra ciascuno dei patriarchi, uno dei pozzi, ed una mizvà.
“la radice del pozzo è la Torà, ma ci sono molte strade attraverso le quali trovare la Torà e la Torà è chiamata: Torat Chesed, Esh Dat e Torat Emet...”
· Avraham è evidentemente la Torat Chesed. Il Chesed come detto si espande e prima o poi entra in conflitto con l’esteriorità. È il pozzo di Esek. Del conflitto, ‘l’acqua è nostra’ dicono i Filistei. Il Chesed di Avraham è paragonato alla mizvà dello Zizzit. Perché esso avvolge tutto come il Tallit. Ed infatti quando mettiamo il Tallit dicamo un verso nel quale la protezione Divina è chiamata ‘Yakar Chasadechà’.
· Izchak è il timore di quella Torà che è un fuoco - Esh Dat. È un timore introspettivo, non c’è contatto estraneo. Per questo c’è solo l’odio degli altri ‘Sitnà’ - ma non c’è scritto che reclamino nulla. In questo caso vogliono solo impedirgli di essere temente. Izchak è paragonato alla Tefillà del braccio. Questa viene posta sul braccio sinistro che simbolicamente è legato alla misura del timore.
· Jacov, la cui misura è la verità come è scritto ‘concedi verità a Jacov’ è la chiave dalla Torat Emet. La Torà di verità. È il pozzo di Rechovot sul quale non c’è contrasto. L’estensione che è nella parola Rechovot (rahav = largo) bene si sposa con un altro verso nel quale è detto che la discendenza di Jacov erediterà un ‘retaggio senza limiti’. È la Tefillà della testa della quale è detto (e nel rito italiano questo verso si dice proprio nel momento in cui si indossa) ‘e vedranno tutte le nazioni del mondo che il Nome del Signore è chiamto su di te e ti temeranno’.
In questa stupenda simbologia ogni mattina noi ripercorriamo la strada dei Padri mettendo prima il Tallit, poi la Tefillà del braccio e quindi quella della testa. Non c’è un giusto o sbagliato nel percorso di ciascuno dei patriarchi, ma piuttosto una evoluzione che anche noi siamo chiamati a compiere. In particolare sottolinea lo Sfat Emet, va notato che Avraham ed Izchak hanno una discendenza non completamente ebraica. Ishmael ed Esav. Questo va motivato con il fatto che ‘c’è amore e c’è amore, e così anche per il timore’. Amore e timore, sono due misure umane che possono essere indebitamente attribuite. Ed anche per dei giganti come Avraham ed Izchak possono mischiarsi amori o timori ‘pesulot’ - squalificati.
Non così è la verità di Jacov. La verità è immutabile. La discendenza di Jacov è interamente kasher. Il motivo è che amore e timore sono misure umane, e che quindi possono fallire. La verità, la radice profonda della Torà, è invece il sigillo Divino, immutabile e perfetto. In questo senso si arriva in cima alla scalata delle proprie capacità umane quando si capisce che tutto viene dal Signore, anche le nostre capacità: solo lì c’è la verità di Jacov.
Come in ogni cosa dell’ebraismo però, il percorso è importante tanto quanto il risultato. Avraham ed Izchak sono indispensabili per arrivare a Jacov così come non si può arrivare allo splendore della verità ‘Tiferet-Emet’ di Jacov senza passare per il chesed di Avraham ed il pachad Izchak.
Il principio, dice lo Sfat Emet è paragonabile al concetto Talmudico per il quale chi fa un regalo lo fa di buon grado ‘con buon occhio’. Per questo chi regala un pozzo, intende dare anche la strada di accesso. Così anche per arrivare al pozzo di Jacov, abbiamo bisogno della strada di Avraham ed Izchak. Così come per arrivare allo Shabbat abbiamo bisgono della settimana, che ci prepara alla Kabalat Shabbat. Per questo è così importante aggiungere dal profano al Sacro, anticipando l’ingresso dello Shabbat.
Come mi ha scritto una volta il mio Maestro, Rav Reuven Roberto Della Rocca shlita, il compito della nostra generazione, forse più di ogni altra, è quello di riscavare i pozzi che i Filistei di ogni generazione hanno ostruito. Credo che il percorso che traccia lo Sfat Emet possa esserci particolarmente utile in questo senso.
I Filistei non vogliono l’acqua, vogliono litigare. Di più vogliono tenerci occupati nel litigio per impedirci di occuparci di Torà. Così i Saggi dicono di Goliath che stava lì dalla mattina alla sera per evitare che potessero dire lo Shemà della sera e della mattina. Ora se c’è da litigare, siamo bravissimi anche in questo. Se c’è da far polemiche senza fine su cosa ha detto questo o quel Filisteo, va bene, ci sono certamente momenti in cui vanno fatte. Ma se noi facciamo del nostro ebraismo un litigio perenne su questo o quel pozzo restiamo ad Esek e Sitnà.
La vera forza di Israele è saper divincolarsi ed arrivare a Rechovot. Arrivare allo Shabbat, arrivare alla Torà. Se il compito della nostra generazione è recuperare la Torà bruciata nei crematori di Auschwitz, non ci riusciremo certo facendo il gioco dei Filistei che ci vogliono prigionieri del ricordo.
Il ricordo, quello vero, è ben altra cosa, ci si arriva quando si è se stessi, quando ci si occupa di Torà, quando si capisce che solo se giochiamo nel campo di Rechovot, nel quale non c’è possibile accesso per mano straniera, alla fine razionalizziamo anche la strada fatta, per dura che sia.
Forse è arrivato il momento di spegnere un po’ le televisioni dell’ebraismo della Shoà ed aprire qualche libro di Torà, della Torà della Verità di Jacov.
Di quella verità che, in ogni caso, interessa solo a noi.
Shabbat Shalom
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