Parashat Chajè Sarà 5771
“E furono gli anni della vita di Sarà: cento anni, venti anni e sette anni, gli anni della vita di Sarà.” (Genesi XXIII,1)
“gli anni della vita di Sarà: tutti uguali nel bene” (Rashì in loco)
La nostra Parashà narra gli eventi della vecchiaia di Avraham e Sarà. In effetti si apre proprio con la morte di Sarà e la sua sepoltura. A ben vedere, è la prima volta che la Torà si occupa di vecchiaia. In effetti il Midrash dice che Avraham ha chiesto a D. di invecchiare. Fino a quel momento la vecchiaia, nel senso biologico del termine, non esisteva. Si viveva la propria vita e ad un certo punto si moriva. Senza invecchiare. Ma la vecchiaia che chiede Avraham non è solo una vecchiaia biologica. Il termine zaken, vecchio, è per i nostri Maestri acronimo di Ze sheKaNa Chochmà. Colui che ha aquisito saggezza. In tutta la Torà la parola zakenindica in primo luogo il Saggio.
Cercheremo di capire meglio cosa chiede (ed ottiene Avraham) e come mai la nostra Parashà insiste così fortemente sugli anni di Sarà ed Avraham, attraverso il commento dello Sfat Emet. A questo però dobbiamo premettere alcuni concetti che il Rabbì di Gur dà per acquisiti, ma che per noi tanto semplici non sono.
Tra le tante difficoltà che abbiamo nel provare, per quanto umanamente possibile, a comprendere il Divino, un posto di rilievo lo occupa certamente la difficoltà di comprendere la trascendenza Divina rispetto al mondo come lo conosciamo, nelle sue dimensioni. Iddio, benedetto Egli sia, è fuori dal tempo e fuori dallo spazio. È fuori dalle dimensioni che descrivono la nostra esistenza. I nostri mistici hanno descritto la creazione come una “contrazione” di D. che “fa posto al mondo”.
Questo “posto”, che è poi il nostro universo, si articola nella nostra tradizione in tre dimensioni: olàm (spazio), shanà (tempo), nefesh(anima/persona). Il Signore come detto trascende queste dimensioni: è fuori dallo spazio, fuori dal tempo e non ha corpo né sembianza corporea. Anche a questo alluderebbe la triplice espressione di Kadosh, Kadosh, Kadosh, Santo, Santo, Santo della Kedushà, nel senso di ‘distinto’ da queste tre dimensioni. Queste dimensioni, nei loro particolari, sono in effetti tutti gli elementi dell’opera della creazione. Esse vengono poeticamente chiamate levushim, abiti. Nella poesia del Qalir che nel rito italiano viene letta la mattina di Rosh Hashnà, il Signore è descritto come il Re dai dieci abiti. Ognuna delle dieci espressioni con le quali il Signore crea il mondo è un abito di cui Iddio si ammanta. Ad esempio ‘Iddio stende la luce come un abito’.
Così il Rambam spiega come non ci sia alcun paradosso tra la conoscenza assoluta del Signore (anche delle nostre azioni future) ed il libero arbitrio. Iddio è fuori dal tempo, prima e dopo non esiste dinanzi a Lui, e tutto è ‘biskirà hachat - in un unica occhiata’.Forse così possiamo capire meglio l’unicità di D., come il mio Maestro Rav Chajm Della Rocca shlita traduce l’Echad dello Shemà. Tutto quello che per noi è molteplice, prima - dopo, qui - lì, dinanzi a Lui è tutto uno.
Forse è proprio questo che intendono i Saggi nel darci l’importante regola ermeneutica per la quale ‘non c’è un prima ed un dopo nella Torà’. Perché come abbiamo già visto nelle scorse settimane Iddio e la Torà sono una cosa sola.
Il fatto però che il Signore trascenda non significa che il mondo è abbandonato a se stesso. Al contrario Egli si ammanta con il creato. Il compito dell’uomo è proprio quello di ricongiungere queste dimensioni alla loro radice sacra. In ognuna di queste dimensioni ci sono allora dei diversi gradi di sacralità. Nello spazio la sacralità di Erez Israel, di Jerushalaim e del Santuario; nel tempo lo Shabbat e le Feste e nelle persone i Coanim ed i Giusti.
Per questo dice lo Sfat Emet, i nostri Maestri hanno insegnato che il Saggio si distingue per tre qualità: ‘conosce il suo luogo’, ‘vede le conseguenze’ ed ‘impara da ogni persona’. Spazio, tempo, persona.
L’ebreo è per questo legato a tempo e spazio in maniera particolare. Insegna il Talmud (Makot 23b) che le seicentotredici mizvot della Torà si dividono in trecentosessantacinque divieti - come il numero dei giorni dell’anno solare - e duecentoquarantotto precetti positivi - come le membra del corpo umano. Le mizvot ci legano al tempo ed allo spazio.
Lo Sfat Emet, nel commentare la nostra Parashà, riflette moltissimo proprio sul concetto del tikun hazman. Letteralmente aggiustare il tempo. Il criterio è che in ogni momento c’è un ‘illuminazione particolare’. Il metro del nostro scarso livello spirituale è proprio il fatto che siamo abituati a pensare al tempo come ad un qualcosa che scorre in totale indipendenza dal nostro operato. In realtà il giusto approccio dovrebbe partire dalla comprensione che in ogni istante ho l’opportunità di santificare il tempo utilizzandolo in maniera propria. Il modo in cui il Signore ha organizzato il tempo, con la notte ed il giorno, è per lo Sfat Emet funzionale a questo scopo. Iddio che ‘arrotola la luce per via del buio ed il buio per via della luce’ come diciamo nella preghiera di Arvit, ci ha dato la notte per separare le giornate ed insegnarci che così come ogni giorno la creazione si rinnova, così per noi c’è qualcosa di nuovo da imparare ogni giorno. Ogni giorno posso servire il Signore in un modo che non era pensabile o possibile né ieri né tanto meno domani. Ogni giorno ha la sua radice sacra. La vera sfida è non perdere questi momenti. Così come insegnano i Saggi che ciò che è irreparabile per definizione è colui che non ha detto lo Shemà alla sera o alla mattina. Quello Shemà perso, non ci sarà mai più. Ma c’è un livello ancora superiore. Spesso, anche quando abbiamo la forza e le capacità di santificare adeguatamente un momento, non siamo in grado di preservarlo. Quante volte abbiamo dei momenti di grande elevazione spirituale - una festa particolarmente sentita, una preghiera detta con particolare concentrazione, una mizvà fatta con tutta l’intenzione possibile, ma poi passata una giornata ce ne dimentichiamo. Ebbene dice il Rabbi di Gur, il modello dei patriarchi e delle matriarche è quello di non dimenticare nulla. Di procedere sì nella scalata dei momenti di giorno in giorno, ma senza mai perdere di vista quello che si è imparato ieri ed anzi usarlo come leva per servire il Signore. Questo approccio “cumulativo” è la chiave per capire il livello di Avraham e Sarà. ‘VeAvraham Zaken,’ Ed Avraham era vecchio, ‘ba bajamim’ - che traduciamo avanzato nei giorni - letteralmente ‘viene nei giorni’ o ‘con i giorni’. Per lo Sfat Emet Avraham giunge in vecchiaia con i giorni, ossia si porta appresso tutte quelle scintille raccolte in ogni giorno della sua vita.
Avraham è appunto capace di accumulare tutto quanto ha imparato, ogni momento santificato, senza perdere nulla. Questo è anche il senso del primo verso della Parashà che loda gli anni di Sarà. Anche Sarà è stata capace di crescere in maniera cumulativa. Su questo verso Rashì dice che gli anni di Sarà sono stati tutti uguali in bene. Lo Sfat Emet sottolinea che non vuol dire che è stato tutto rose e fiori. Questa uguaglianza dei giorni in bene va letta secondo il Rabbi di Gur alla luce del concetto di hishstavvut - eguagliare del Chovat HaLevavot.
Avraham e Sarà hanno avuto una vita assai tribolata. Hanno sperimentato la fame, l’esilio, la spaccatura in casa, incomprensioni con i figli, incomprensioni tra coniugi fino alla prova ultima della legatura di Isacco che secondo il Midrash è causa stessa della morte di Sarà. Insomma non è stato proprio tutto una passeggiata. Spiega il Chovat HaLevavot che l’uomo è chiamato ad agire egualmente a prescindere dalle condizioni esterne. C’è una prova tanto nella povertà che nella ricchezza, ma da noi ci si aspetta un comportamento positivo al di là delle condizioni contingenti. Questo è il senso di quanto dice la Mishnà in Avot, che Avraham (e Sarà con lui) è rimasto in piedi in ogni prova (amad bekulam). È rimasto se stesso in ogni situazione.
Capiamo allora che la vecchiaia è ben altra cosa rispetto al deterioramento fisico del corpo. È piuttosto un livello superiore di avanzamento nel percorso spirituale che ognuno di noi deve compiere. È vero, è anche il periodo più prossimo al completamento della vita di questo mondo, ma proprio per questo ci avvicina al Divino. Zaken è per lo Sfat Emet scomponibile nella lettera zain che ha valore numerico sette, come i giorni della creazione e nella parola ken, nido.
Zaken, il vecchio, è colui che fa del tempo, dei sette giorni, il nido, il luogo, dell’interiorità. A questo proposito fa notare il Rabbì di Gur che ci si deve alzare in piedi tanto per il canuto che per il vecchio. Il canuto è colui che è biologicamente anziano. Il vecchio, lo si è detto è il Saggio. Tanto all’anziano che al Saggio si deve rispetto. All’anziano indipendentemente dalla saggezza, giacché il solo percorso ha già un valore intrinseco. Il Saggio a maggior ragione è colui che ha saputo santificare il percorso ad un punto tale da essere degno di rispetto a prescindere dall’età.
Mi sembra che dovremmo cercare di fare nostre queste riflessioni dello Sfat Emet, sopratutto in un epoca come le nostra, nella quale il rapporto con il tempo è così complesso. Siamo una generazione nella quale è facile essere schiavi di una frenesia che non ci lascia momenti. Ma siamo anche la generazione nella quale più che in altre alcune persone sono attanagliate dalla noia e dalla depressione. Il messaggio del Rabbi di Gur è che a prescindere da ciò che ci accade attorno dobbiamo trovare il modo di vivere pienamente ed ebraicamente i nostri momenti.
Il trattato di Makot si conclude con una straordinaria discussione tra Rabbì Akivà e gli altri Saggi dinanzi
allo sfacelo della distruzione del Tempio. Rabbì Akivà dimostra la veridicità della profezia di Zecharià che dice ‘Siederanno ancora vecchi e vecchie per le strade di Gerusalemme ed un uomo col bastone in mano per i molti giorni, e le strade della Città si riempiranno di bambini e bambine che giocano nelle sue strade’ (VIII,4). E consola gli altri Maestri.
I vecchi e le vecchie, come i patriarchi e le matriarche diventano la chiave per comprendere la redenzione personale e nazionale. Giacché la gehulà passa per il bastone di un anziano, per il gioco di un bambino, nella Terra d’Israele.
Chi come noi, per motivi che solo il Padrone del Mondo conosce, ha avuto il merito di poter vedere le parole di Zecharià ogni mattina scendendo di casa a Gerusalemme, dovrebbe avere un pensiero per questo gigante di Israele che le ha sapute vedere nelle macerie del Santuario, che presto sarà ricostruito. Mentre i vecchi continueranno a sedere col bastone ed insegnare Torà ai bambini che giocano, come avviene anche oggi nei giardini di Jerushalaim.
Perché non si interrompe lo studio dei bambini nemmeno per la costruzione del Bet Hamikdash.
Shabbat Shalom
Nessun commento:
Posta un commento