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giovedì 21 ottobre 2010

Benedetti coloro che siedono e coloro che stanno in piedi

Parashat Vajerà 5771

E apparve a lui il Signore nel querceto di Mamrè, [mentre] egli siede alla porta della tenda, per la calura del giorno.(Genesi XVIII, 1)

siede: è scritto [in forma difettiva che si può leggere] sedeva. [E da ciò si capisce, come dice il Midrash in Bereshit Rabbà XLVIII,7,] che tentò di alzarsi. Disse lui il Santo Benedetto Egli Sia: Siedi ed io starò in piedi. E questo è per te un segno per i tuoi figli, perché in futuro Io sarò presente [in piedi] nel consesso dei giudici ed essi siedono, come è detto Iddio è presente [in piedi] nel consesso del giudizio (Salmi LXXXII,1) (Rashì in loco)

La rivelazione Divina ad Avraham nostro padre con la quale si apre la nostra Parashà è profondamente legata alla milà che Avraham ha appena fatto. Rashì, citando il Midrash, ricorda che era il terzo giorno dopo la milà, il più doloroso, ed il Signore venne a compiere il precetto di fare visita ai malati, secondo il principio di cui molte volte ci siamo occupati per il quale il Signore osserva tutta la Torà.

Altri esegeti insistono sul nesso logico che c’è tra la milà e la rivelazione. Si tratta di un momento fondamentale della storia ebraica. Avraham, ricevendo il primo precetto che lo discrimina dai Noachidi diviene ebreo. Dalla radice ever, dallaltra parte. Diviene un altra cosa. Da qui che questa rivelazione è particolarmente importante, perché è da questo momento che Avraham si staccahalahicamente definitivamente dal resto del mondo. Il verso in effetti sottolinea questo aspetto calcando su elav, a lui, e non ad altri e sottolineando altresì il luogo: il querceto di Mamrè. L’unico tra gli amici di Avraham ad aver accettato l’idea della separazione spirituale di Avraham attraverso la milà. L’oggetto della rivelazione è triplice come tre sono gli angeli: la guarigione di Avraham, l’annuncio della nascita di Itzchak e l’annuncio della distruzione di Sdom.

Lo Sfat Emet spiega, sulla scia di molti rishonim, che è solo dopo la milà che Avraham è in grado di vedere. La milà apre un mondo nuovo per Avraham. Il processo di rivelazione del sacro attraverso la perià e la rimozione di ogni ‘buccia’, come abbiamo visto la scorsa settimana, pone Avraham in una condizione nuova. È ora in grado di ricevere una rivelazione qualitativamente superiore. Ciò che però attira l’attenzione del Rabbi di Gur è piuttosto l’atteggiamento di Avraham ed in particolare il suo stare seduto alla porta della tenda.

La porta, simbolo di comunicazione tra luoghi diversi, rappresenta qui il punto di legame tra elionim e tachtonim. Tra il mondo Divino e quello umano. Iddio desidera l’opera degli uomini. Egli poggia il mondo spirituale sulle mizvot degli uomini che aprono la porta all’immanenza Divina in questo mondo. La grandezza di Avraham è nella profonda comprensione che nonostante tutto ciò egli resta alla porta del Sacro. All’apice della scalata del Sacro, nel momento in cui esegue la prima mizvà come ebreo ed apre la porta ad un nuovo rapporto tra D. e l’uomo, Avraham sa di essere solo un uomo alla porta del Sacro. Questa incredibile modestia si riscontra nell’operato di Avraham che invece di crogiolarsi del precetto appena compiuto cerca viandanti, certamente gentili, da assistere. Avraham, lo dice Rashì, era sulla porta per cercare ospiti. Lo Sfat Emet vede in ciò il fatto che Avraham, nel momento in cui diviene ebreo, non rinuncia al suo ruolo universale ma anzi vuole aprire la porta della rivelazione Divina al mondo intero. Lo Sfat Emet sottolinea qui che il vigore spirituale di Avraham non si è smorzato. Non è una rinuncia apatica la sua. Il caldo del giorno descrive per il Rabbi di Gur il calore del fermento spirituale di Avraham. Il caldo del giorno è la febbre di Avraham malato sì, ma di una malattia particolare. Cholat Haavà è il malato d’amore in una parafrasi del Cantico dei Cantici. Avraham non si ferma per via del caldo, si ferma nonostante il caldo. Riesce ad imbrigliare l’entusiasmo spirituale in un atteggiamento più corretto. Avraham, sulla porta, argina il calore della giornata.

Ma Avraham non è solo sulla porta, egli siede sulla porta.

Il fatto che Avraham sieda incuriosisce i nostri Maestri. Il Midrash lo abbiamo visto nel commento di Rashì, vede in ciò un messaggio per le generazioni future. In senso assoluto non è corretto che il Maesto stia in piedi e l’alunno sieda. Iddio, per l’amore d’Israele è disposto a rovesciare questo rapporto. Lui è in piedi, Avraham siede. L’esempio che porta il Midrash è legato alla sfera del giudizio. I giudici devono sedere. Sedere significa riflettere. Significa ponderare. Sedere è nell’immaginario ebraico sinonimo di studio della Torà. La Yeshivà, il luogo dello studio, è il luogo in cui yoshvim, ci si siede. La staticità del sedersi implica la serietà del processo.

Lo Sfat Emet dice ‘Siede alla porta della tenda: è un termine che indica trattenersi, ed è un termine presente. Ovvero si imparano due cose dal verso. Che Avraham si trattiene, cioè non va via, non passa ad altro. E che Avraham siede, al presente. Il Rabbi di Gur chiama in causa in tal senso un verso dei Proverbi (VIII, 34) che descrive Israele nel suo alzarsi di buon mattino presentandosi alle ‘Mie Porte’, le porte delle Sinagoghe e dei Batè Midrash (lishkod al daltotai), giorno dopo giorno (yom yom) senza muoversi mai da esse, (lishmor mezuzot petachai), come una mezuzà che non si stacca dallo stipite.

Il sedersi di Avraham diviene allora il prototipo dell’atteggiamento che si deve avere nello studio della Torà. La Torà la si studia seduti. Ben vengano le pillole di Torà che nel nostro mondo frenetico ognuno di noi cerca di ingoiare tra una cosa e l’altra, ma la Torà ha bisogno dei suoi momenti. Di approfondire. Di trattenersi. Di riflettere. Allo stesso tempo la Torà ha bisgono di assiduità. Il rapporto con D. e con il Sacro lo si costruisce yom yom. Ogni giorno. Avraham è colui che dopo aver toccato il Cielo, dopo aver aperto la porta del Cielo, sa tornare per terra e ricominciare ogni giorno da capo, dal lavare la polvere dai piedi di un viandante.

Questo sedere non è un inno alla staticità. È paradossalmente il presupposto perché Iddio possa stare in piedi. La dinamicità del Sacro è legata ad un certo grado di staticità dell’uomo. Perché la Torà scritta, Divina ed immutabile, possa marciare, l’uomo deve sedersi e fermarsi per occuparsi della Torà Orale, la Torà dinamica.

In questo senso lo Sfat Emet intende quanto detto dai Saggi: se l’uomo apre per D. una porta grande quanto la fessura di un ago, Iddio gli aprirà un portone grande quanto il portone dell’Ulam del Santuario. L’opera dell’uomo, per quanto piccola, innesca l’aiuto Divino. L’uomo si sforza e fa una piccola mizvà in più, dal Cielo viene aiutato e riceve una benedizione spirituale assolutamente sproporzionata: in verità la cosa importante è laiuto del Cielo ma in ogni modo tutto dipende anche dallopera delluomo.

I Saggi non hanno parlato a caso di portone del Santuario. Il Santuario è infatti al contempo la summa dell’opera umana nella sua materialità e la porta di comunicazione tra D. e l’uomo. Nel momento in cui il Santuario è pronto Moshè benedice il popolo con le parole:

Disse loro: Sia la Volontà che risieda la Presenza Divina nellopera delle vostre mani, Sia la grazia del Signore nostro D-o su di noi... (Salmi VII, 17) e questo è uno degli undici Salmi composti da Moshè.” (Rashì in loco citando Bemidbar Rabbà 2,9)

Il verso per esteso dice ‘Sia la grazia del Signore nostro D. su di noi, e lopera delle nostre mani rinsaldi su di noi, e lopera delle nostre mani rinsaldala.
Lo Sfat Emet spezza il verso nelle sue tre parti. Sia la grazia del Signore nostro D. su di noi è il mistero Divino che è al di là ogni comprensione umana. Lopera delle nostre mani rinsaldi su di noi è la porta che i tachtonim, gli uomini, schiudono per conto loro. Lopera delle nostre mani rinsaldala sono la Torà e le Mizvot. Quesi tre livelli trovano il loro equilibrio proprio nella Torà e nelle Mizvot che è il punto di incontro tra l’opera imperscrutabile del Signore e l’opera degli uomini. Questo è secondo il Rabbi di Gur il senso di quanto dice lo Zohar: che il Santo Benedetto Egli Sia, la Torà ed Israele sono una cosa sola.

Il verso con cui Moshè descrive il completamento del Santuario definisce dunque il rapporto tra D. e l’uomo attorno alla Torà. Il Santuario in effetti si articola attorno all’Arca. L’epicentro del Santuario è il luogo nel quale Iddio ha creato la materia, la prima pietra, e sul quale posa l’Arca con la Torà. Petach HaHoel, la porta della Tenda del nostro verso è un termine che torna molte volte nella Torà. Esso si riferisce generalmente alla Tenda della Radunanza, il Santuario. Petach Hoel Moed è un richiamo rituale che indica determinate operazioni del culto sacerdotale che vanno necessariamente svolte nel cortile interno, la azarà, che si trova appunto oltre la porta, il portone dell’Ulam. Questo cortile è in effetti lo spazio umano, più prossimo allo ‘spazio’ del Divino. Il centro della azarà è l’altare, costruito nel luogo dal quale Iddio ha preso la terra per formare il primo Uomo, Adam. Nel Kodesh, oltre la porta, è spazio Divino interdetto all’uomo se non per l’espletamento delle funzioni sacerdotali ‘ed ogni uomo non vi si troverà leggiamo nella Parashà di Acharè Mot.

E qui accade una cosa curiosa. Iddio, che è sempre ‘in piedi’, ‘siede sui Cherubini dellArca. Il Santuario è il luogo (makom) nel quale Egli che è il Luogo del mondo (Makom) siede. Si trattiene con noi. Risiede in mezzo a noi. Se stare in piedi significa muoversi, vuol dire che al contrario il Santuario è il luogo dell’azzeret del trattenersi. Dell’incontrarsi. Le feste, i Moadim, sono i momenti chiave del Santuario proprio come moed, appuntamento nel senso di tempo e luogo per incontrarsi come insegna Rav Mordechai Elon shlita. Al contrario nella azarà, nella quale solo gli ebrei possono entrare, è proibito sedere. Tanto è proibito sedere che il Sinedrio, il Tribunale per eccellenza ed il simbolo dello studio della Torà e della Torà orale tutta, nel quale come visto si deve sedere per forza, è costruito sul limite della azarà: mezzo dentro e mezzo fuori in modo che sia sì nella azarà ma si estenda fuori, in modo che i giudici possano sedere oltre il limite della azarà stessa.

Questa regola ha un eccezione notevole. Il re. Il re d’Israele, solo se di stirpe Davidica, ha il diritto di sedere nel cortile interno. David che come abbiamo visto la scorsa settimana rappresenta la comprensione profonda del concetto della milà è re d’Israele in quanto funzionale al regno di D. nel mondo. Solo un re della Casa di David può sedere nel luogo in cui D. stesso siede. Tutto ciò è profondamente inerente al concetto della giustizia e della sua amministrazione. La giustizia richiede il sedersi. Anche quella Divina. Nell’immaginario di Rosh Hashanà Iddio Yoshev al Kisè Mishpat/Din e poi Yoshev al Kisè Rachamim. Prima siede sul trono della giustizia, poi si alza al suono dello Shofar e siede su quello della misericordia. Anche il trono del re e del potere politico deve segnalare l’amministrazione della giustizia, ma questo è possibile solo con la Casa di David. Per tutti gli altri re, anche per quei re che in maniera più o meno legittima hanno regnato su Israel senza essere di stirpe Davidica, valgono due regole: non hanno diritto di sedere nellaazarà ed inoltre per loro vale la regola che ‘il re non giudica e non lo si giudica.

Solo David e la sua discendenza siedono e possono giudicare, persino nel cortile interno. Il regno Divino è veramente stabile - Iddio siede - solo se David siede sul trono d’Israele nel cortile interno del Tempio.
Il Talmud dice anche che le porte del Tempio restarono sprangate quando Salomone voleva introdurvi l’Arca con la Torà. A nulla sono valsi tutti i versi intonati da Salomone, finché Salomone non chiede ‘ricorda la bontà di David Tuo ServoSolo allora si aprirono. In maniera curiosa il Talmud asserisce che gli oppositori di David che lo accusavano di una condotta sessuale inadeguata per via dell’episodio di Bat Sheva restarono ammutoliti. L’apertura delle porte del Santuario sono la conferma dell’integrità della milà di David.

Rabbì Ovadià Sforno sottolinea che Iddio si rivela ‘in piedi’ nel luogo della milà di Avraham perché è un brit, un patto. E quando si fa un patto si sta in piedi, come evince il maestro italiano da numerosi versi della Torà. E conclude in maniera incredibile: ‘forse è per questo che si usa preparare una sedia nel momento della milà e nel suo luogo.

Apparentemente non ha senso quello che dice Sforno. Solo dopo tutto ciò che abbiamo detto possiamo capire. La sedia del profeta Elia che annuncia l’avvento del Figlio di David, è presente ad ogni brit milà proprio a ricordare il legame inseparabile che c’è tra milà e David, tra il sedere davanti al Signore che è in piedi e l’amministrazione della giustizia e lo studio della Torà che si fa seduti.

Forse possiamo allora apprezzare meglio l’augurio che si fa pochi attimi prima che il moel pronunci la benedizione e faccia la milà. Beruchim HaYoshevim veAomedimBenedetti coloro che siedono e coloro che stanno in piedi. Rav Menachem Immanuel Artom lo riferisce al pubblico in piedi ed al sandak, il comprare, che è seduto. Ma oltre al pshat, al senso immediato, tutta la milà, da Avraham in poi, ruota attorno allo stare in pedi o seduti. E mi accorgo solo ora che in effetti nel rito della Comunità di Roma, nella quale i due sandakim stanno in piedi, l’unico che siede è proprio il bambino. Forse un augurio che il bambino circonciso possa essere colui che nel Santuario ricostruito, siederà sul Trono d’Israele.
Shabbat Shalom

Sbucciare l'Universo


Parashat Lech Lechà 5771
Sulla traccia della derashà che ho pronunciato in occasione della nascita di Asher Angelo Di Castro, con l’augurio che cresca nella Torà e nelle Mizvot e che le sorgenti della sua Torà possano dirompere all’esterno.
  
Questa settimana incontriamo la prima mizvà data ad Avraham come ebreo, la milà.
Il Midrash racconta che una volta il re David si stava immergendo nel mikve, quando, resosi conto di essere completamente nudo e senza mizvot fu preso dal terrore. Si calmò solo quando si ricordò di avere su di se la milà. Che cosa vuole dirci il Midrash?

In primo luogo dobbiamo ricordare che l’ebreo è, o dovrebbe essere sempre circondato dalle mizvot. Lo zizzit del tallith e dell’arbà kanfot, i tefillin, la mezuzzà alla porta e così via. Un ebreo ha anche il precetto di scriversi un Sefer Torà. Il re d’Israele deve eseguire questo precetto due volte ed una copia delle due copie deve essere perennemente con il re. Si dice che David ne avesse una micrografata legata al braccio. In questa prospettiva si riesce a capire il vuoto che ci può essere nel momento in cui, seppur per poco tempo, tutto ciò viene a mancare. Il mikve è infatti luogo nel quali ci si deve spogliare di ogni cosa e di ogni interposizione per immergersi e purificarsi. Non si può portare un Sefer o dei Tefillin nel mikve e David si sente nudo non solo fisicamente ma anche interiormente.

Il Midrash ci sta qui ricordando come i segni esteriori, le mizvot nella loro fisicità, abbiano un impatto sullo spirito. Nelle parole del Sefer HaChinuch: ‘I cuori vanno appresso alle azioni’. Persino per uno zadik come David. Al contempo, in maniera affascinante, ci invita a riflettere su come esista una mizvà dalla quale non ci si può spogliare. La milà. La milà come segno nella carne è quanto di più interiore esista nella fisicità. È la porta di comunicazione tra la carne e lo spirito. Ed è anche la chiave per capire il ruolo di Israele. 

Lo Sfat Emet ricorda che Avraham ha delle difficoltà a capire come possa divenire ‘integro attraverso un’apparente menomazione. È questo il grande esercizio di comprensione che si deve fare con la milà. Com’è possibile che l’uomo possa perfezionare l’opera Divina?

Per spiegare ciò il Rabbì di Gur sottolinea che la fase principale della milà non è il taglio dell’orlà, il prepuzio, quanto piuttosto, laperià. L’operazione cioè, con la quale il moel tira verso il basso la pelle che copre il glande. La corretta esecuzione della perià è assolutamente necessaria perché la milà sia valida: già hanno detto i nostri Saggi ‘mal velò parà, kehilu lo mal. ‘Se ha tagliato ma non ha fatto la perià, è come se non avesse tagliatoL’attenzione che l’halachà riserva alla perià è in effetti la vera discriminante che c’è tra il precetto della milà e le circoncisioni in uso tra tanti popoli. 

Lo Sfat Emet vede in ciò il senso profondo della mizvà. Lo scoprire. Iddio ha creato il mondo in modo tale che ciò che c’è di sacro sia sempre ricoperto e occluso dalla klippà. Dalla buccia. In ogni cosa c’è una radice sacra. Il compito dell’ebreo è quello di far uscire alla luce il sacro, levando la buccia. Questo è in effetti il compito dell’uomo nel mondo. Rivelare il sacro che Iddio ha nascosto nel creato. Cominciando proprio dall’uomo stesso. 

Questo processo fisico esiste in molti precetti della Torà. C’è però anche un processo interiore che segue le stesse modalità. L’anima, la parte più interiore dell’essere, è ricoperta dal corpo. La radice sacra, quell’anima che è un pezzo del Trono Divino e ad esso ci lega perennemente, è racchiusa nella materialità. Ebbene noi dobbiamo riuscire a far uscir fuori questa sacralità. A rompere i vincoli della materia e far uscire alla luce il sacro. Paradossalmente però questo può avvenire solo nella materia stessa. Solo utilizzando la materia per il sacro, il sacro può uscire. 

In una continua sovrapposizione di materia e spirito, questo è quello che avviene anche nella gravidanza e nel parto. ‘En Zur KeEloenu’, ‘Non c’è Rocca all’infuori del Nostro D.’, viene reso dai Saggi come, ‘En Zaiar KeEloenunon c’è artista come il nostro D. perchè il Signore ‘zar zurà betoch zurà Disegna una forma all’interno di un altra formaLo Sfat Emet, dice che questo non si riferisce solo al miracolo della procreazione nella sua fisicità, ma anche al fatto che solo il Signore è in grando di disegnare l’anima all’interno del corpo. Nel lessico dei Maestri il feto è prigioniero nel ventre materno, ma anche l’anima è prigioniera nel copro. Ed in questo gioco di scatole cinesi la donna che partorisce sta scoprendo il neonato da una prima buccia ed il padre, otto giorni dopo proseguirà l’opera con il brit milà.

Il percorso della Teshuvà, del perenne ritorno a D. ed a noi stessi, passa proprio per l’uscita. Josef esce di prigione nel giorno di Rosh Hashanà proprio in quel giorno noi chiediamo: ‘vetozì laOr mishpatenu’, fai uscire alla luce il nostro giudizio. Il Rabbi di Gur dice infatti che i tredici attributi di misericordia che accompagnano le nostre preghiere sono paralleli ai tredici patti stipulati con la milà. Ci sono dei momenti in cui è necessario uscire e far uscire. Un Avraham perplesso, viene fatto uscire dal Signore per contare le stelle. Questa uscita fisica è nell’ottica dei nostri Saggi una richiesta di uscire da una mentalità ristretta. Di uscire dalla cultura imperante. Di uscire dal mondo come lo conosciamo per aprirci alla volontà di D.. Quando nella Mishnà e nel Talmud veniamo invitati a capire a fondo una cosa, l’espressione è ‘Tzè UlmadEsci e studia

Se c’è un momento fondamentale nella storia d’Israele è l’uscita dall’Egitto. Quel Mizraim che significa ristrettezze. Noi siamo il popolo che si definisce proprio per la capacità di uscire fuori. I nostri Saggi ci dicono che non si deve andare in Egitto perché ogni scintilla sacra è stata già raccolta lì. Ossia l’uscita è stata così radicale che non c’è più niente da far uscire fuori in Egitto. Da qui si capisce che l’ebreo non si trova mai per caso in un posto o in una situazione. In ogni momento egli può scoprire il Sacro che c’è in ogni cosa, luogo o situazione. E soprattutto in ogni altra persona. 

Molto spesso, pensando alla milà, si pensa ad una cosa completamente maschile. È vero: la mizvà è del padre e il soggetto è il figlio maschio. Eppure questo è solo un lato della medaglia. L’aspetto fondamentale della milà è infatti la sacralizzazione della vita sessuale dell’ebreo. In un epoca dove tutto è consumo ed il mondo vive in quest’ottica ogni aspetto della vita ed in particolare la sfera sessuale, la Torà ci invita ad essere Santi proprio nella più materiale delle pulsioni umane. Certo è più facile percepire il timore reverenziale di D. se si indossano Talled e Tefillin e si tiene in mano un Sefer Torà. Quanta attenzione, quanto timore del Sacro, abbiamo per i nosti oggetti di mizvà. Ebbene la milà è oggetto di mizvà tanto quanto, ma forse molto più di Tefillin o Sifrè Torà. Ed è con la stesso rispetto del sacro che dovremmo guardare all’atto sessuale. Questo è esattamente il percorso di David nel midrash. Solo alla fine capisce che la sua milà non vale meno dei Tefillin che ha appena tolto.

David si sta immergendo nel mikve. Quel mikve che simbolo stesso del processo di purificazione della donna ebrea. L’altro lato della sacralizzazione del rapporto di coppia. 

Per lo Sfat Emet la milà è anche una chiave per la Torà stessa. I Tosafisti, e lo riporta poi anche il nostro Sfer HaTadir (Rabbì Moshè Bar Yekutiel MeAdumim da Roma) vedono nel verso ‘Mì Iaalè Lanu Ashamaima’ Chi salirà per noi in cielo [a prendere la Torà]le iniziali della parola Milà. Per i Saggi il verso intende che anche se la Torà fosse in cielo dovremmo andarcela a prendere. Lo Sfat Emet aggiunge che proprio attraverso la Milà noi riusciamo a salire in cielo, a ricongiungere materia e spirito. Attraverso la Milà possiamo veramente ricongiungere la Torà terrestre alla Torà celeste. Ma la milà è la chiave per la Torà anche perché proprio non appena il bambino nasce dobbiamo ricordarci che il compito dell’ebreo nel mondo è quello di occuparsi di Torà. Tutto il resto è accessorio. Quant’è bello che l’augurio che si fa circa le capacità dello studio della Torà di una persona sia un verso dei Proverbi (V,16) che dice ‘Yafuzu Maaianotecha Chuza Le tue sorgenti diromperanno fuori di teLa Torà paragonata ad una sorgente deve essere insegnata. La mizvà dello studio della Torà, lo abbiamo detto più volte, è quella di insegnare.

L’augurio che si fa per la Torà di una persona è che possa uscire fuori. Quant’è affascinante che gli ebrei di Roma cantino, nel momento in cui tutta la Torà viene estratta dall’Aron a Simchà Torà, ‘Yafuzu Oievecha’, Si disperderanno i tuoi nemici. Perché se noi sapremo far sgorgare le sorgenti della Torà queste spazzeranno via ogni nemico che cerca, come i filistei prima di lui, di insabbiare le sorgenti della Vita.

E così anche la redenzione sarà accompagnata dallo sgorgare dell’acqua della Torà dal Luogo del Santuario, presto ed ai nostri giorni.
Shabbat Shalom

venerdì 8 ottobre 2010

Entrare nella Parola


Parashat Noach 5771

"E disse il Signore a Noach, vieni tu e tutta la tua casa nell’arca..." (Genesi VII,1)

Ci siamo in passato occupati del ruolo della lingua ebraica. L’ebraico non è una lingua come le altre. La lashon hakodesh, la lingua del Santo è la lingua con la quale il Signore ha creato il mondoCiò che distingue l’uomo dagli animali è l’anima vivente, che Onkelos rende come spirito parlante, la capacità verbale dunque. Ebbene l’ebraico è proprio la radice profonda del verbo, è l’interfaccia tra l’uomo ed il sacro. Nulla è lasciato al caso nella lingua del Santo, ogni parola, ogni lettera, ogni elemento grafico di ciascuna lettera ha il suo ruolo nella continua opera della creazione. Dando l’ebraico ad Adam, Iddio l’ha reso partecipe della Creazione. Ed Adam dà nomi agli elementi del creato. 

Le vicende dell’ebraico sono una chiave di lettura importantissima per capire la nostra parashà. 
Alla fine di questa, con l’episodio della Torre di Bavel, un umanità ormai corrotta, perde il diritto all’uso della Lingua del Sacro. Perde la capacità di interfacciarsi con quanto di sacro c’è nel mondo. 

L’ebraico, e quanto esso rappresenta, diviene retaggio assoluto del popolo d’Israele. 
Bisogna capire che questo discorso non è una bella idea filosofica, ma ha delle ripercussioni sul creato e sulla halachà stessa. Nel Talmud, nel trattato di Makot (3b) si discute dei liquidi che cadendo in determinate quantità dentro un Mikvè lo inficiano. Che differenza c’è tra dell’acqua attinta colorata (che rende pasul il mikvè) e dell’acqua attinta che si è mischiata a vino ed è altrettanto colorata (che invece non lo rende pasul)? Ravà non ha esitazioni, il fatto stesso che una cosa si chiama "acqua colorata" e l’altra "vino allungato" fa sì che una infici il mikvè e l’altra no. Le parole contano, le parole definiscono.

Il Chidushè HaRim a nome dei propri Maestri, (come riportato in Sfat Emet, Noach) riflette sul senso dell’oggetto chiave della nostra parashà: l’Arca. La Tevà. Tevà ebraico significa in primo luogo parola. 
"la Tevà di Noach...sono le parole (tevot) e le lettere della Torà, sicché ogni uomo può far entrare se stesso in ogni parola della Torà e della Tefillà e per mezzo di ciò salvarsi da ogni occlusione" 

Nel dire a Noach di entrare nella Tevà, Iddio gli sta dicendo di entrare nella parola. L’Arca come luogo di salvezza diviene il simbolo della parola come luogo (sic) nel quale ripararsi dal peggiore dei diluivi, quello della occlusione (ester), della lontananza dal Signore. Per entrare nelle parole della Torà e della Tefillà, secondo lo Sfat Emet, bisgona annullarsi. Si deve vedere la parola come il ventre materno del quale il feto è parte integrante. 

Ma c’è un livello più profondo. Le parole sono composte da lettere. Le lettere hanno una sacralità maggiore che è superiore alla comprensione umana. Esse hanno un senso quando diventano parole che possiamo capire. Entrare nella parola, significa per lo Sfat Emet, entrare nell’intimo della parole, nelle sue lettere. Proprio perché incomprensibili per se stesse, le lettere ci mettono di fronte a quanto di Divino c’è nel verbo. L’Alef-Bet indica la creazione stessa (Bereshit barà Elochim et... In principio creò Iddio ET – Alef-Taf , in italiano si direbbe A-Z – la prima creazione è quella dell’Alfabeto).

Le lettere sono dunque i mattoni della creazione che vengono creati per primi e poi composti in parole, quando la creazione passa da potenza ad atto. Per ricordarci quanto le lettere, al loro livello più elementare, siano importanti, i Saggi ci dicono che chi pronuncia ogni giorno le lodi del Salmo CXLV che è in ordine alfabetico (Theillà LeDavid – Ashrè Yoshevè Betecha) tre volte, gli è assicurata la Vita del Mondo Futuro. (TB Berachot 4b)

Le altre lingue sono secondo i Maestri, una traduzione dell’ebraico. Nella visione del Rabbi di Gur, ognuna è un estensione dell’ebraico che è ‘la radice di tutte le lingue’. Questa visione dell’ebraico come sintetizzatore di ogni capacità verbale e fulcro di ogni lingua ci aiuta a capire un altro aspetto di quanto avviene nella Parashà di Noach.

La generazione della Torre cerca l’unità. Non vuole disperdersi. Ma sopratutto vuole ‘farsi un nome’. Shem. Che i Saggi intendono come idolatria. La parola può diventare oggetto di idolatria. La capacità verbale stessa può servire l’esatto opposto della visione Divina quando invece di essere strumento per avvicinarsi al creatore viene usata per ‘cacciare le persone ammaliandole con le proprie belle parole e con discorsi ad effetto. Nimrod è proprio questo. Nimrod fa della parola, del proprio saper parlare bene, lo strumento per sottomettere il prossimo e spingerlo al male. Shem è un upgrade della parola. Ma il passggio da parola a nome è un passaggio sacro. Il Nome per Eccellenza è l’impronunciabile Nome di D. Il Nome degli uomini e delle cose è la loro anima più profonda, il loro ruolo nella Creazione. Paradossalmente anche le parole della Torà possono diventare oggetto di idolatria, ed in passato abbiamo visto come il Meshech Chochmà così intenda la rottura delle Tavole.

Nel momento in cui Iddio toglie agli uomini la capacità di parlare l’ebraico sta togliendo loro anche l’unità. La achdut, quell’unità che non è l’effimera unità stereotipata che essi cercavano, e cercano ancora, (achidut) quanto quella comunione di intenti sacri che rende secondo lo Zohar, Israele e la Torà un tutt’uno con il Santo Benedetto Egli Sia. (Comunione è un termine ebraico che non ha nulla a che vedere con la sua accezione da parte di altre culture. Ho sentito dire al mio Maestro Rav Reuven Roberto Della Rocca shlita, che traduce lechem hapanim, come il pane della comunione, che non dobbiamo aver paura di usare la nostra terminologia, solo perché altri successivamente ne hanno fatto uso improprio).

Nella nostra tradizione infatti, il numero delle lettere della Torà corrisponde alle seicentomila anime del popolo d’Israele. Così ogni ebreo è in realtà una lettera della Torà, che noi scriviamo continuamente con il nostro comportamento. La prossimità fisica, non è un male in se. È male se diviene surrogato per la mancanza dell’unità spirituale. E così anche, spiega lo Sfat Emet, paradossalmente anche se siamo stati divisi e sparpagliati tra le genti, possiamo e dobbiamo trovare la nostra unità proprio nell’attaccarci alle lettere della Torà, nell’entrare nelle lettere stesse. Solo in questo mondo ‘meriteremo la ricostruzione della Città del Santo dalla dispersione della diaspora’. Perché la stessa diaspora come ossimoro dell’unità fisica e politica è funzionale a tracciare il percorso della teshuvà: "La riparazione deve essere che si riesca a migliorarci e trovare la radice dell’unità dallo stato di dispersione così come colui che fa teshuvà-ritorno torna e si riavvicina proprio dal suo allontanamento". 

Secondo lo Sfat Emet così come questa radice di unità è presente all’inizio della Creazione, così essa è presente all’inizio di ogni anno, nel momento in cui il Creatore, Benedetto Sia, rinnova la vita. Gli Iamim Noraim, e poi Sukot ed infine Sheminì Azeret, sono proprio un percorso che ci deve portare all’achdut. E questo perché l’esercizio che facciamo in queste giornate è quello di accettare su di noi il dominio del Signore ed il Suo Regno. Non è certo un caso allora che i nostri Saggi hanno segnalato l’importanza del verbo proprio in questi giorni. 

Sono i giorni nei quali le nostre preghiere si riempiono di composizioni poetiche che sono ‘miissod Chachamim uNvonim’, fondate sui Saggi e Sapienti. E’ anche il momento in cui più è importante la capacità verbale dello shaliach zibbur, di quell’officinte che è inviato del pubblico. Ed è in queste giornate che il pubblico prega anche per ‘le bocche degli inviati del tuo popolo la Casa d’Israele...insegna loro cosa dire, falli consci di ciò che diranno...che non inciampino con la loro lingua e non sbaglino nelle loro espressioni’. E ferma restando l’importanza della oggettiva capacità verbale questa non può mai prescindere da quella sentimentale. ‘il Misericordioso desidera i cuori’, insegnano i Saggi. Ed infatti è sempre negli Iamim Noraim che nelle straordinarie parole dell’Ochila LaEl, ricordiamo il legame che c’è tra ciò che è nel cuore dell’uomo e la capacità verbale. Quest’ultima è un dono Divino e solo grazie all’aiuto del Signore possiamo trasformare i sentimenti in parole.

Questa capacità è secondo lo Sfat Emet parallela all’ordine Divino rivolto a Noach di uscire dall’arca. E quindi, secondo lo schema che ci ha accompagnato, di uscire dalla parola. Nei Salmi infatti è detto (142) ‘Hai fatto uscire dalla reclusione la mia anima e rendere grazie al Tuo Nome’. (Questo Salmo è stato scelto dal Rabbinato Israeliano per pregare per la liberazione di Ghilad Shalit(da quattro anni rapito, prigioniero di terroristi a Gaza che gli negano ogni più elementare diritto umano, compresa la corrispondenza con al famiglia o una visita della Croce Rossa)
‘...perchè il corpo ed il rivestimento dell’azione occlude la luce dell’anima e dell’interiorità, ma ci sono dei tempi nei quali si aprono le porte in cielo ed allora anche in basso si aprono i cuori delle persone che si occupano del servizio del Creatore...’ 

Dopo essersi immersi nella parola si deve saper uscire anche dalla parola. Uscire dalla parola significa trovare le parole per lodare il Signore. Per attaccarsi al Signore. Questo è possibile sopratutto in determinati momenti. Di Shabbat, nelle Feste, ma anche nei Capimese. 
Messo da parte per un attimo lo Shabbat che è nella Sfera del Signore ed è totalmente indipendente dal nostro operato, lo Sfat Emet riflette sulle Feste e sul Rosh Chodesh.
‘...sarebbe stato appropriato che tutti i capimese fossero giorni festivi, perché le tre feste sono per merito dei tre padri ed i dodici capimese sono per merito delle dodici tribù. Ma il [nostro] peccato lo ha impedito (Tur, Orach Chajm, Rosh Chodesh). E la questione è che nelle feste ci sono delle grandi porte. E nei Capimese delle piccole porte. E se le anime fossero sane santirebbero l’illuminazione da queste porte....’

Oggi non siamo degni nemmeno delle porte delle feste, visto che non abbiamo il Santuario. Ma in futuro, spiega il Rabbi di Gur, anche il Capomese tornerà al suo status originale di giorno festivo. Questa riflessione lo porta a spiegare anche il ruolo dell’Hallel del Capomese. Non c’è precetto dell’Hallel nei Capimesi, è un uso del popolo ebraico come si evince dalla Ghemarà. Ma quest’uso ha un senso profetico perché ‘se non sono profeti, sono figli di profeti’. Noi diciamo l’Hallel perché siamo consci che a Rosh Chodesh le porte si aprono e sebbene non siamo in grado di apprezzare il Roash Chodesh oggi, un giorno lo saremo. Noi diciamo l’Hallel gioendo di ciò che in futuro sarà il Capomese. 
La costruzione fisica della Torre come ricerca dell’unità diviene simbolo del fallimento dell’uomo nell’uso della lingua in quanto, parafrasando il Pirkè Avot, non era un raduno ‘leshem Shamaim’ con fini superiori. Il suo esatto contrario è allora per lo Sfat Emet la costruzione del Bet Hamikdash. "...faremo una costruzione in basso attraverso le anime dei figli d’Israele perché in ognuno di loro c’è una lettera o un punto...e questo è ‘leshem Shamaim’ che posi su questo raduno il Suo Nome Benedetto..."

Lo Sfat Emet ricorda che i Saggi hanno interpretato il verso nel quale Jeoshua e Calev dicono ‘saliremo salendo’, riferito alla nostra capacità di prendere possesso di Erez Israel, come ‘...se anche ci dicesse fatevi delle scale e salite in Cielo, ci riusciremmo..’Sembra quasi di sentire i costruttori della Torre. Quasi. Ma non è così. Il distinguo tra il ‘in nome del Cielo’ o, mai sia, non a nome del cielo, fa tutta la differenza.

Si può costruire una scala che congiunge Cielo e Terrra solo se si accetta che essa sia per glorificare il Nome del Signore e non il nome degli uomini. Solo se si capisce che il fine è un mondo migliore e non gli interessi contingenti di questo o quel Nimrod.

È una riflessione affascinante alla vigilia di uno Shabbat Noach che è anche capomese di MarCheshvan. Mar, amaro perché senza feste, almeno fino a quando non saremo capaci di fare del Capomese una ‘Reghel biFne Azmò’, una Festa a pieno diritto.
Shabbat Shalom e Chodesh Tov.

domenica 3 ottobre 2010

Emet veEmunà

Derashà per Simchat Torà e Shabbat Bereshit 5771

In occasione del Chatan Torà di Mio Padre e Maestro David Pacifici shlita al Tempio Italiano di Gerusalemme con l’augurio tradizionale “di vedere figli e nipoti occuparsi di Torà ed osservare le mizvot...e di gioire della gioia del Bet Habechirà”.


Il nostro D. è D. di verità (emet) e la sua Torà è verità (emet) e fiducia (emunà). L’inizio della Sua parola è verità e la sua fine ne dimostra la veridicità, ed Egli posa le fondamenta del mondo sulla giustizia, sulla pace e sulla verità.” (Yozer di Shabbat Bereshit secondo il rito italiano, l’autore è Rabbì Binjamin)

Lo Shibbolè Haleket (Rabbì Zidkià ben Avraham Anav) afferma che dovremmo studiare a fondo i pyutim, le composizioni poetiche che accompagnano le nostre preghiere, giacché questi sono stati composti da grandi Sapienti che hanno concentrato in essi (in versi) profondi insegnamenti. 

Vorrei pertanto provare a spiegare la prima strofa dello Yozer di Shabbat Bereshit alla luce del commento sulla prima Parashà della Torà dellSfat Emet, il Rabbi di Gur.

Fiumi di inchiostro sono stati versati sul primo commento di Rashì sul Pentateuco ed anche noi ce ne siamo più volte occupati. La Torà sarebbe dovuta cominciare da ‘Questo Mese è per voi...’ (Esodo XII,2) con la prima mizvà, quella del Capomese, ed invece comincia con la Genesi perché quando verranno le genti a lamentarsi che abbiamo rubato la Terra d’Israele potremo dimostrare con la narrazione biblica che la Terra è del Signore che la concede a chi vuole, sulla base di un verso del centoundicesimo Salmo: “La forza delle Sue azioni ha narrato al Suo popolo, per dare loro il retaggio dei popoli”.

Lo Sfat Emet si chiede che motivo ci sia allora per tutto il resto della Genesi: in fondo bastavano pochi versi. La risposta che da il Rabbi di Gur è il risultato di una profonda analisi su cos’è la Torà e qual’è il suo ruolo nella Creazione.

Secondo i nostri Maestri Iddio ha ‘guardato nella Torà e Creato il mondoIl mondo è il risultato dell’azione Divina ‘conforme’ alla Torà. Allo stesso modo l’azione umana conforme alla Torà ed al suo spirito diviene altrettanto Creatrice. Le azioni sublimi dei Patriarchi vengono trasformate in Torà. Ad un primo livello è proprio per questo che il Signore inserisce la Genesi: per dimostrarci come l’azione umana incida sulla Torà stessa, per donarci dunque il concetto di Torà Orale, della Torà dell’uomo. La Torà scritta, per lo Sfat Emet, ruota attorno alle mizvot (e doveva cominciare da ‘Questo mese...’) ma la Torà Orale si basa sulla Torà che noi scriviamo con il nostro comportamento. Questa sarebbe la forza delle Sue azioni ha narrato al Suo popolo, che equipara l’azione creatrice Divina con la retta condotta del Giusto. 

Ma lo Sfat Emet va oltre. Il Ramban apparentemente dissente da Rashì e sostiene che la narrazione della Genesi serve ad inculcare l’Emunà, la fiducia in D. Nello spiegarci come i due commenti non siano necessariamente in contrasto il Maestro di Gur ci conduce per mano spiegandoci la differenza tra Emet, Verità e Emunà, fiducia.

La Torà, è noto, ha molteplici livelli e così anche la sua rivelazione. Esiste la Torà Celeste ed esiste la Torà così come filtra nel Creato nei suoi molteplici livelli di comprensione. La sorgente della Torà è Emet, è la Verità assoluta del Divino. Israel è ‘attaccato al corpo della Torà’, ossia Israele si interfaccia con il livello più alto possibile (in termini umani) della Torà. Questo è il livello delle mizvot, delle leggi e degli ordinamenti. “Per conto nostro, [la Torà] non si doveva vestire con tutti questi avvenimenti...”. Per quello che riguarda Israele la Torà può benissimo cominciare da ‘Questo mese è per voi.” Ma non è così per tutti.
È noto il Midrash sugli ultimi versi della Torà che vuole che la Torà sia stata proposta (e non accettata d) alle altre nazioni del mondo. È evidente dice lo Sfat Emet che è stata proposta loro ad un livello inferiore. Ora se il mondo avesse raggiunto la perfezione anche questo livello inferiore per le genti avrebbe trovato la sua collocazione in una Torà che cominciava da ‘Questo mese è per voi’. Ma visto che così non è stato si rende necessario che la Torà filtri più in profondità nella materialità di questo mondo, attraverso la Genesi. Non per Israele, che come detto è in ogni modo legato alla Torà nella sua autenticità, Esh Dat, un fuoco di legge, ma per il mondo tutto sicchè ‘i figli d’Israele possano avvicinare tutti gli esseri creati e tutti gli eventi al Santo Benedetto Egli Sia attraverso la Torà (cfr. Maimonide). In questo modo anche Israele deve scendere di livello, ma è una discesa finalizzata alla salita del mondo intero.  Ed allora la Torà di Verità-Emet, diviene Torà di Emunà, fiducia. Dalla Torà così come è in Cielo, dobbiamo saper passare alla Torà di questo mondo. A non vedere più necessariamente le cose come sono in Cielo, ad aver fiducia e portare la Torà in questo mondo: ed in questo senso è vero quello che dice il Ramban. Secondo una lettura dei Maestri del Mussar (ed in particolare di Rav Dessler) di cui ci siamo occupati in passato, nel momento in cui Israel decide di non proseguire ad ascoltare direttamente da D. le ultime otto parlate (comandamenti), sta in effetti chiedendo l’introduzione del concetto stesso di Emunà. L’Emunat Chachamim, la fiducia nei Maestri ed in Moshè in primis. È una discesa. Una discesa consapevole.  

L’Emunà, la fiducia, è legata a doppio filo alla materialità. Secondo una nota parabola dello Jerushalmi sul verso di Isaia (XXXIII;6) la parola Emunà corrisponde al primo Ordine della Mishnà, quello di Zeraim, che si occupa della vita agricola giacchè l’ebreo ‘ha fiducia nel Creatore e seminaNel mondo dell’Emunà l’azione creatrice dell’uomo è comunque in funzione della fiducia nell’azione Creatrice di D.. Emunà significa infatti ‘arte-mestiere’.  Ma Emunà contiene anche la stessa radice di Omen, balia. Perché ‘la Torà si è vestita della composizione che è davanti a noi per prendere l’uomo e innalzarlo dalla materialità del corpo per attaccarsi al Divino come una balia che si fa piccola per educare il bambinoMoshè si lamenta in effetti di non poter portare il popolo come una balia con il poppante. Per quanto la Torà sia infinita e così come per l’enormità del suo essere eccelsa, c’è un enormità verso il basso’. Moshé, che aveva più di ogni altro avuto accesso alla Torà Emet, non si reputava in grado di scendere ulteriormente, nonostante la Torà stessa scendesse con Israele nel livello più basso nel quale erano precipitati dopo il peccato. Non credeva di poter scendere così tanto nella scala della Torat Emunà. 

Mi sembra che così si debba intendere anche quanto dice Rabbì Meir nel trattato di Sanedrhin, nel Perek Chelek, quando afferma che un bambino ha parte nel mondo futuro da quando impara a dire ‘Amen’. Dalla stessa radice ‘Alef, Mem, Nun’. È quello il momento in cui viene piantato un seme che potrà crescere attraverso la balia della Torà fino al Trono Celeste.  

Nel mondo della Emunà, la Torà penetra capillarmente nel Creato fino ai livelli più profondi. Il fatto che il Mondo sia stato Creato per mezzo della Torà fa sì che non ci sia luogo libero dalla Torà. Ma nonostante ciò ad Israele è stata data l’essenza della Torà. In maniera allegorica Israele ha ricevuto delle acque infinite che si diramano in fiumi e torrenti, che sono il punto di contatto che l’umanità ha con la Torà. Così anche la parte narrativa della Torà ed in particolare la vita dei Padri diviene un punto di accesso alla Torà per le genti, che possono in questo modo trovare un punto di contatto con la sorgente infinita della Torà che è retaggio esclusivo di Israele. In questo percorso le acque dei fiumi e dei torrenti si purificano attraverso il contatto con il Mare della Torà d’Israele. E così come tutti i fiumi tendono al mare ciò è vero anche per l’uomo, per il tempo e per la terra.

Nel mondo umano tutti gli arti tendono verso la milà, simbolo per eccellenza della partecipazione umana alla Creazione. Nel tempo, tutti i giorni tendono allo Shabbat che ci riporta proprio al tempo della Creazione. Ed anche nello spazio tutte le Terre tendono verso Erez Israel. Il luogo della Creazione. Ed ecco che Milà, Shabbat ed Erez Israel, che sono chiamate, reshit, primizie sono retaggio unico del popolo ebraico. Ed è proprio attraverso questa sua unicità che Israele può adempiere con fedeltà (emunà) al suo ruolo di balia (omen) del mondo, allo stesso modo in cui la presentazione delle primizie rende commestibile tutto il resto del prodotto. È per questo, sottolinea Rashì, che la Genesi serve anche a sancire la funzione di Erez Israel come Santuario dello Spazio attraverso il quale Israele può innalzare il mondo intero, quello stesso mondo che ha bisogno della Genesi laddove ad Israele basterebbe ‘Questo mese è per voi’.

Non è certo un caso che il verso del Salmo: “La forza delle Sue azioni ha narrato al Suo popolo, per dare loro il retaggio dei popoli compare appunto, almeno nel nostro rito, tanto durante la Milà, quanto durante lo Shabbat (a Minchà). 

Questo processo è comunque tutt’altro che statico. La Creazione, è noto, non è una tantum ma si rinnova quotidianamente. Così anche la Torà, la nostra Torà, deve rinnovarsi. Per lo Sfat Emet la Torà nella quale Iddio ha guardato per fare il mondo è ‘la Torà che è in ogni generazione ed ogni anno’. Attraverso il nostro studio della Torà, attraverso quanto impariamo di anno in anno, l’universo cambia perché noi stiamo scrivendo pagine di Torà Orale attraverso le quali il mondo viene continuamente ricreato. Mi sembra che ciò sia particolarmente vero proprio in occasione di Simchat Torà. Nel momento in cui la conclusione della Torà coincide con il suo inizio. In cui i due Azè HaChajm, gli Alberi della vita, gli assi attorno ai quali è arrotolata la Torà, si toccano idealmente fondendosi nel solo grande Albero della Vita. 

L’inizio della Sua parola è verità e la sua fine ne dimostra la veridicità, dice il Pyiut. La conclusione della Torà che descrive Moshè proprio in questo suo ruolo di balia di Israele ed i primi versi della Genesi che si rendono necessari proprio per stabilire il percorso della Emunà, sono paradossalmente i momenti nei quali veniamo chiamati a ricordarci che la Torà è in primis, Emet, verità, perché Iddio, Benedetto Egli Sia è Emet, nella sua assolutezza. Il nostro D. è D. di verità (emet) e la sua Torà è verità (emet) e fiducia (emunà). Quando lo capiamo possiamo apprezzare meglio come la Torà sia il connubio della verità Divina e della fiducia umana, Torà Scritta e Torà Orale. E che Egli posa le fondamenta del mondo sulla giustizia, sulla pace e sulla verità. Ossia che proprio dalla convergenza della Torà Celeste e quella terrestre deriva la Halachà e l’amministrazione della giustizia, della pace e della verità che sono il pilastro su cui Israele edifica quotidianamente assieme a D. stesso, il mondo intero.

Ed in una sovrapposizione che solo Israele può concepire nello stesso momento in cui celebriamo il continuo processo di creazione attraverso il nostro studio della Torà, ci occupiamo dell’agricoltura di Erez Israel e ci ricordiamo della pioggia. Gheshem che significa anche materialità. È nel momento di massima verità, che troviamo anche la massima fiducia. Emet veEmunà. Cielo e Terra. Scritto ed Orale. Possiamo essere noi stessi solo se riusciamo a trovare il giusto equilibrio tra questo mondo e ciò che lo trascende. Ed è proprio attraverso la Torà Orale che Le regole per l’annullamento dei voti fluttuano nell’aria e non hanno [una base Scritturale] su cui poggiarsi. (TB Chagghigà 10a) .
Moadim LeSimchà