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giovedì 23 dicembre 2010

Buio e Luce

Parashat Mikez - Shabbat Chanukà 5771



E disse Josef al Faraone: Il Sogno del Faraone è uno. Ciò che Iddio fa, ha narrato al Faraone (Genesi XLI, 25)

La straordinaria storia del passaggio di Josef dalle carceri al vertice del governo ha come fulcro l’interpretazione del sogno del Faraone. I nostri Saggi, incuriositi dall’improbabilità degli eventi narrati, si chiedono come sia possibile che il più potente dei sovrani dell’epoca avesse bisogno di uno schiavo incarcerato per interpretare un sogno.

In effetti la corte del Faraone disponeva di un enorme quantità di maghi, stregoni, sacerdoti, ministri e consulenti vari. Nessuno riuscìad interpretare il sogno in maniera soddisfacente per il Faraone. leFarò. Secondo il Midrash la corte propone moltissime interpretazioni ma il Faraone le respinge. Sempre il Midrash, ripreso da quasi tutti i Rishonim, individua la chiave del successo interpretativo di Josef nel sistema utilizzato. Tutti gli altri provarono ad interpretare i due sogni come eventi separati; solo Josef capisce che i due sogni sono in realtà un sogno solo. Il Faraone stesso aveva in qualche modo percepito questa unicità ma non era riuscito a spiegarla. Infatti dice sempre bachalomì, nel mio sogno e mai nei miei sogni.

L’Egitto non riesce a capire il concetto dell’uno. Nel sistema politeistico egiziano l’uno non esiste. La radice dell’unicità non c’è. È tutto multiplo.

Lo Sfat Emet paragona questa incapacità di comprendere l’unicità, con un noto Midrash di cui ci siamo occupati in passato per il quale il Faraone pur conoscendo le settanta lingue del mondo non riesce ad imparare da Josef l’ebraico. L’ebraico è la radice di tutte le lingue. È la radice sacra della capacità verbale. Il resto delle lingue sono traduzioni dell’ebraico, che è la lingua attraverso la quale Iddio ha creato il mondo. Questo livello di unicità è precluso al Faraone.

Il Rabbi di Gur utilizza il sogno del Faraone per spiegare un concetto basilare della filosofia ebraica: raza deChad, il segreto dellUno.

Le vacche grasse e quelle magre, così come le spighe e gli anni di abbondanza e carestia, rappresentano il “bene” ed il “male”.

Quando il Faraone racconta il sogno a Josef egli aggiunge un dettaglio molto interessante che non figura nel racconto “oggettivo” della Torà all’inizio della Parashà. Quando le vacche grasse vengono divorate da quelle magre, l’aspetto delle vacche magre resta magro,velò nodà ki bau el kirbenna, non ci si rende conto che sono entrate dentro, dice il Faraone. Per lo Sfat Emet questa è la chiave.

Ciò che ai nostri occhi è un evento negativo ha il suo ruolo nel mondo nel quale bene e male sono mescolati. L’errore che noi facciamo è quello di considerare il male un qualcosa di separato. In realtà tutto viene dal Signore e tutto è una cosa sola. Il punto da capire è proprio che il ‘male’ non ha una consistenza propria. Il buio non ha mammashut, consistenza, è piuttosto l’assenza della luce. Di più è l’occlusione della luce che in realtà esiste sempre. Capiamo allora che ciò che noi vediamo come ‘negativo’, che nel lessico dei mistici è chiamato Sitrà Achrà, laltro lato, è in realtà l’ombra di ciò che è buono.

Gli anni di carestia hanno un senso nel disegno Divino. Non sono meno parte del piano del Signore rispetto agli anni di abbondanza. Certamente sono meno simpatici per noi, ma questo non li rende meno ‘buoni’. Tutto è bene dinanzi al Signore. Questo è il senso profondo di quanto dicono i Saggi nella Mishnà, “E tutto ciò che ha creato il Santo Benedetto Egli Sia nel suo mondo, non lo ha creato altro che in Suo onore....

Questo è anche ciò che intendono i Saggi quando dicono che quantunque in questo mondo ci sia una benedizione per gli eventi positivi (hatov vehametiv) ed una per le disgrazie (dajan emet) in futuro diremo sempre hatov vehametiv.

Questo il Faraone non lo capisce. Lo sente ma non lo capisce. Per il Faraone una vacca magra è una vacca magra. Tu la puoi relazionare quanto vuoi al disegno Divino ed alle vacche grasse e spiegare quanto vuoi come le cose siano legate: per lui resta una vacca magra. Serve Josef per spiegare alla Corte d’Egitto il concetto dell’Uno.

Tutto viene dal Signore e tutto è opera del Signore.

La luce Divina, la luce della Creazione, la luce della Torà è esterna a questo mondo. Preesiste il mondo. È fuori dal tempo e dallo spazio. Anche ora. Quando la luce penetra nel nostro mondo finito si confronta con la materialità che spesso occlude la luce della Torà. C’è infatti un verso che dice “hinnè hachoshech jechasè eretz, il buio copre la terra. Il buio esiste solo in questo mondo ed in questo mondo si attacca alla luce e la adombra. In realtà però ogni occlusione ed ogni oscurità sono illusioni. Sono il risultato della nostra incapacità di utilizzare la materia per servire il Signore. Siamo noi che creiamo il buio quando non sappiamo attaccarci propriamente alla luce.

Ki Ner Mizvà veTorà Or. La mizvà è paragonata dal Testo ad un lume mentre la Torà è la luce stessa. Per questo motivo si può spegnere il lume di una mizvà trasgredendola, ma non si può spegnere la luce stessa. La Torà. Allo stesso tempo si può illuminare il buio facendolo scomparire proprio attraverso le mizvot secondo il principio che “un poco di luce scaccia molta oscurità.

Le mizvot sono allora il modo per ‘tirare (limshoch) la luce Divina in questo mondo cancellando il buio.

Per il Midrash il buio di cui parla la Torà nel primo giorno della creazione è il simbolo del regno di Grecia. Choshech ze Javan. Nel momento in cui noi veniamo a celebrare la sconfitta del modello Grecia, lo facciamo illuminando quel buio. La spettacolarità della mizvà di Chanukà è proprio di far coincidere nello spirito e nella materia il principio per cui la mizvà è un lume, attraverso cui possiamo capire che la Torà è luce, una luce che non può essere oscurata.

Per lo Sfat Emet questo discorso è valido anche a livello individuale. Ognuno di noi hai il suo buio. Così come ognuno di noi ha dei momenti di vacche magre e dei momenti di vacche grasse. Il buio individuale è nell’immaginario dei Maestri chiamato ‘pozzoLa prigione di Josef è un pozzo. L’acqua della Torà però può riempire il pozzo facendoci uscire.

Capire che istinto del bene ed istinto del male, che anni buoni ed anni cattivi, sono racchiusi nel concetto dell’Uno non è facile. Serve appunto la Torà per ricordarci che tutto viene dal Signore. In questo contesto un elemento chiave nel pensiero dello Sfat Emet è il ruolo dello Zaddik.

Nel momento più buio della carestia ‘Vajftach Josef. Josef aprì. Il Giusto ha la capacità di aprire un percorso verso l’interiorità. È chiaro che ognuno di noi è chiamato al suo personale processo di apertura verso l’interiorità. Spesso questo avviene proprio quando ci si trova in momenti non facili. In quei momenti possiamo divenire zaddikim.

Il pozzo in cui Josef è rinchiuso si apre all’improvviso quando questi è necessario per spiegare il concetto dell’uno. Così anche noi dobbiamo capire che le nostre vacche magre sono funzionali alla nostra capacità di spiegarci e spiegare al mondo il concetto dell’uno. Se non siamo ancora fuori dal pozzo significa che non l’acqua della Torà non ci ha ancora sollevati al punto giusto.

Dobbiamo però ricordare, sempre in ogni momento, che come Sforno dice per Josef, la salvezza del Signore è in un batter d’occhio. In ogni momento possiamo passare dal buio alla luce. E per quanto il percorso interiore può essere lunghissimo, la rivelazione ed il passaggio effetivo dal pozzo alla luce avviene in un istante.
In quest’ottica possiamo apprezzare meglio l’antico uso della Comunità di Roma nella quale si accende la Chanukà usando quanto resta del lume alla cui luce si è letta Echà a Tishà BeAv.

È un modo per ricordarci che il passaggio dalla distruzione al Santuario ricorstruito è in un batter d’occhio. E così come in una stanza buia una piccola fiammella scaccia via immediatamente il buio così una sola piccola mizvà farà pendere dalla parte del merito la bilancia d’Israele, e giungerà il Redentore a Sion, presto ed ai nostri giorni!

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